Un’aria di pay per content…

Una chiara e lunga analisi di Roberto Venturini su Apogeonline

In fondo potremmo decidere di dividere il mondo dell’editoria (e sul web siamo tutti editori) in quattro macro aree alquanto disomogenee. Proviamoci e vediamo che succede. Primo: ci sono i mezzi che nascono a fini politici, di lobby o associazionistici – mezzi che possono anche essere no profit nel senso che il loro fine è far passare un messaggio al proprio pubblico, al di fuori di logiche commerciali – per capirci come una volta erano i giornali di partito – oppure di fare un servizio ai propri associati o al pubblico in generale. Questi media i soldi li fanno dalle quote associative, da fondi pubblici, finanziamenti privati e così via.

Una seconda categoria è quella dei mezzi/testate che non hanno fini di lucro (o l’hanno molto marginalmente) in quanto espressione di un interesse o una passione personale: questo è il comparto di milioni di blog o siti di espressione personale, dove se si tira su qualche euro all’anno è grasso che cola ma non importa, tanto lo si fa per un proprio interesse, visione etica, perché si ha qualcosa da dire. E per questo si è disposti a investire tempo, fatica e magari qualche euro di tasca propria.

Una terza categoria potremmo identificarla in quei mezzi espressione di interesse aziendale: siti o newsletter che portano acqua al mulino di una certa impresa, una forma di comunicazione diciamo pubblicitaria. L’house organ o la rivista sponsorizzata/prodotta dall’azienda, il sito del prodotto che ci fa giocare o ci dà servizio, il blog del Ceo.

L’ultima categoria è quella classica: mezzi che esistono per fare soldi e a questo fine sviluppano contenuti da offrire al pubblico, in cambio di soldi (vendita o abbonamento alla testata) o da offrire in forma gratuita o molto subsidized – offrono audience ad investitori che comprano pubblicità, occhi, readesrhip. Questa è la categoria nel mirino dell’evoluzione del mercato attuale; prendiamo per buona l’affermazione che a un certo punto il meccanismo pubblicitario si romperà (e qui ci sarebbe da discutere, ma non lo facciamo). Del resto le prime crepe si vedono eccome: quotidiani che chiudono, migliaia di giornalisti spagnoli del mondo “tradizionale” licenziati e così via.

Se va in crisi la pubblicità sui media tradizionali si guarda con interesse al web che costa meno: anzi costa proprio poco secondo un modello macroeconomico classico. Dato che l’offerta di spazi sul web è virtualmente infinita, i prezzi in abbondanza di offerta e in riduzione di domanda per la crisi economica sono destinati a scendere. Scendono i prezzi, scendono i ricavi : immaginiamo che i proventi della pubblicità non coprano più i costi e che quindi l’editore o trova altre fonti di revenue o cambia mestiere e chiude un business poco remunerativo come quello di produrre una testata (stampa, web Tv o radio che sia).

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