Levi, Levi, Anselmi, La Stampa

Via Prima Pagina

Quando Giorgio Levi tenta la prima scalata a La Stampa è il 1974. Reduce del Sessantotto, cultura balbettante, fuori corso all’università, quattro facoltà cambiate, nemmeno una conclusa, nessuna laurea. Indossa giacche di velluto liscio come Robert Reford in “Tutti gli uomini del presidente” e mette il taccuino intonso nella tasca posteriore dei pantaloni come Dustin Hoffmann. Ha l’incrollabile convizione che il suo mestiere è quello del giornalista. Ma non in un posto qualunque, il suo è La Stampa.

Il direttore Arrigo Levi nel 1974

In quell’anno il numero uno nella nuova sede di via Marenco è Arrigo Levi. Nella primavera del ’74 Levi (Giorgio) ottiene, per vie traverse, un colloquio con il direttore. Quando è sulla porta dell’ufficio di direzione (che allora era molto diverso da quello che è oggi) si presenta:
“Sono Levi”.
Seduto sulla sua poltrona c’è Arrigo: “Levi”.
Il giovane Levi capisce subito che la coincidenza non è un buon segno, il vecchio Levi è tignoso su questa storia del cognome. Ha del whisky in un ripiano della libreria, ne offre un bicchiere al Levi piccolo:
“Che cosa posso fare per te?”.
“Beh…parlarmi delle rose selvatiche del Giappone? Non credo”.
“Hai fatto l’università?”.
“Alcune, più d’una, per la verità”.
“Ma che bravo, quella di adesso?”.
“Scienze politiche”.
“Bene, sei vicino alla laurea allora?”.
“Direttore, sono qui perché voglio fare il giornalista”.
“Mhhh…dunque. Sì capisco. Abbiamo bisogno di giovani”.
“Ecco”.
“Però io Levi che assumo un Levi, non sei nemmeno mio figlio, ti confesso che è complicato”.
“Non è colpa mia se ci chiamiamo Levi, e io non sono nemmeno suo cugino” (questa risposta la penserà, se la ripeterà per anni, ma lì con il suo whiskie in mano non la dice).
“Guarda, io ti direi per il momento fai esperienza, diventa un bravo cronista, fatti le ossa, poi vediamo”.
“E ‘proprio quello che pensavo di fare”.
Levi congeda Levi con la promessa di ripensarci. A tutt’oggi, anno 2010, non deve averci ancora pensato perché i due Levi non si sono mai più visti.

Il direttore Giulio Anselmi, 35 anni dopo
Il secondo colloquio della vita con il direttore della Stampa è nel 2007, 35 anni esatti dopo il primo. Per alcuni un tempo ragionevole. Levi, che entra ed esce dal giornale da alcuni anni con numerosi quanto frustranti contratti a tempo, chiede ad un giudice di arbitrare la partita. Il giudice ci pensa un po’ poi in una assolata mattina di novembre fischia la fine dell’incontro e mette d’accordo tutti, ancora prima che inizi un processo. E Levi può entrare a La Stampa. L’accoglienza avviene ai piani amministrativi, strette dimano, firme, un sacco di gente, cominciano i primi sgambetti, tira lasolita filuera, sorrisi, benvenuto Levi. Nelle assunzioni normali il direttore riceve il neo redattore, gli dice qualcosa tipo bene arrivato a bordo, gli augura buon lavoro e due ore dopo gli morde i polpacci.
Per Levi il rito dovrebbe essere superato dai fatti. Ma non è così. Il direttore è Giulio Anselmi e vuole vedere Levi ad ogni costo.
La porta dell’ufficio è la stessa di 35 anni prima. Anselmi è dietro la sua scrivania con gli occhi a fessura, le labbra serrate, i movimenti facciali ridotti ai minimi termini. Il solito modellino di 500 rossa d’epoca sul ripiano della libreria.
“Levi, entra”.

“Ciao direttore, come stai?”.
“Siediti”.
“Eccoci qui”.
“Vuoi che dica la verità?”.
“Sono qui per questo, direttore”.
“Io,fosse dipeso da me, fossi stato io a dover decidere, avessi potuto pensarci, non ti avrei mai assunto”.
“Certo, direttore”.
“E’ un giudice che lo impone all’azienda”.
“Lo so, è andata così”.
“Ti mando alla redazione di Vercelli”.
“Ma che meraviglia, sono proprio contento”.
“Da oggi sei uno come tutti gli altri”.
“Questo sì”.
“Bene, se un giorno vuoi tirarti fuori da là datti da fare”.
Levi si aggiusta la cravatta porta fortuna comprata allo spaccio del campus di Berkley, fa un cenno ad Anselmi, che storta la bocca in una smorfia. Il primo treno per Vercelli parte tre giorni dopo, in pieno inverno. Levi sulla banchina di Porta Susa si aggiusta il sacco sulle spalle, ripieno di generi di conforto. Nell’ordine pullover, cappello di lana, coltellino svizzero, taccuini, medicine, alimentari vari, tshirt di ricambio. Non si sa mai.