Un altro pensiero sull’epurazione dei pubblicisti

Via linkiesta

Ho trovato davvero divertente la trovata del governo italiano di abolire l’ordine dei giornalisti pubblicisti. Per i profani: i giornalisti, in Italia, possono appartenere alla serie A e alla serie B. La serie A sono i professionisti: occorrono 18 mesi di praticantato, 400 euro di tasse e un esame di stato scritto e orale. Poi c’è il calderone dei pubblicisti, per accedere al quale in Lombardia è necessario pubblicare 65 articoli firmati e pagati, sborsando poi 300 euro all’iscrizione e quasi 170 euro l’anno, ma i costi variano di regione in regione. Abolendo i pubblicisti dal settembre 2012, chi scrive a pagamento senza essere professionista potrebbe essere denunciato per “esercizio abusivo della professione”. Potrebbe essere una bufala, e spero davvero che lo sia.

A quanto pare, questa decisione è stata presa dal prof. Monti dopo un giro di consultazioni con gli ordini professionali su ipotesi di riforma degli stessi. E’ un metodo che trovo strepitoso: sarebbe come andare dai proprietari di ristoranti a chieder loro “come possiamo aiutarvi a chiudere bottega?”. Adesso non sorprendono più i titoli entusiastici per le manovre di Monti su Repubblica e sul Corriere. Sono, in fondo, gli stessi giornali che come “manovre per lo sviluppo” montiane hanno citato la conferma dell’esistenza in vita dell’ICE o le tasse sullo junk food, oltre all’aumento delle tariffe autostradali, nell’ottica del “ciò che fa bene a Benetton, fa bene all’Italia”.

Non mi sorprende, allora, che l’Ordine dei Giornalisti non abbia mosso un dito per criticare una scelta de medioevo nipponico. Il sistema degli ordini è una misura restrittiva del talento. Gioisce chi professionista è già: c’è meno concorrenza. Ha dichiarato un consigliere dell’ordine, Antonella Cardone, che “Per noi è una restrizione, ma anche l’occasione per rendere più qualificata la categoria”.