Il fatto che uno di noi accetti di essere pagato poco dovrebbe essere fonte di preoccupazione per tutti

Via Silvia Bencivelli

Nel mio lavoro, prezzo e valore dell’opera spesso funzionano così. La prestazione, poniamo una puntata alla radio o un articolo su un giornale, ha un prezzo fissato a monte. A dispetto del fatto che mi chiamino libero professionista, non è possibile contrattarlo e non dipende da quanto sono brava e ricercata. Anzi: il mio cliente in genere si fa un punto d’orgoglio del pagarlo a tutti sempre nella stessa misura (guarda, paghiamo tutti così, siamo equi…), che poi è anche un sistema per abbassarlo a tutti, di colpo, senza possibilità di discuterne (guarda, siamo costretti ad abbassare i compensi, lo facciamo con tutti, siamo equi…). Ma il valore che può avere è molto variabile.
Per esempio: se intervisto l’amico mio faccio molta molta meno fatica che a cercare una voce diversa, e se chiamo l’ufficio stampa dell’azienda che mi tempesta di comunicati probabilmente avrò anche qualche dato in più, senza nessuno sforzo. Peccato che nel primo caso faccia un servizio discutibile al pubblico (non è detto: ho amici strepitosi, io) e che nel secondo rischi di fare decisamente male il mio lavoro (è necessario che spieghi il perché?). Potrei giocare alla giornalista d’inchiesta, uscire di casa, fare più interviste, ammazzarmi di telefonate, scovare temi nuovi, situazioni critiche, aspetti loschi, ma chi me lo fa fare? Tanto sono pagata a cottimo, o ad articolo, e non mi è mai successo che al valore che ho dato alla mia opera corrispondesse un premio o una punizione: pagano tutto uguale, a tutti uguale, sono equi, no?! E poi la spesa al supermercato la pago con il prezzo, non con il valore, e dopo un po’ può anche scappare di decidere che il primo è più urgente.

Il punto è che il valore che do io alla mia opera ha un ovvio corrispettivo sul valore che quell’opera avrà per il pubblico, solo che il pubblico non sempre se ne accorge. Che ne sa, il pubblico, di come ho scelto il tema e chi intervistare? Il senso della mia opera potrebbe cambiare i suoi comportamenti, convincerlo a farsi curare una malattia che non ha o a fare qualcosa di diverso da quello che farebbe, ma il senso della mia opera potrebbe non essere corretto. Non vorrei montarmi la testa, ma è più o meno da queste parti che si piazza il valore sociale del mio lavoro e la mia responsabilità. Ed è più o meno dalle stesse parti che si dovrebbe trovare l’attenzione del pubblico al mercato dell’informazione, intesa come servizio alla collettività. Non faccio il medico, ma ho tutto l’interesse a battermi perché i medici possano crescere e lavorare in modo da garantire a me, paziente, un buon servizio sanitario. Per dire.

Ecco: quando si parla di mercato del lavoro dovremmo forse ricordarci che il prezzo del lavoro può essere una faccenda sporca, che poi ti rimproverano sempre di mettere sul tavolo anche quando, insomma, non sta bene (in genere trattasi di dipendenti pubblici che ricevono lo stipendio anche quando vanno in ferie, i depositari del bon ton). Ma il valore del lavoro è una roba di cui dovremmo tenere di conto come collettività, perché è il lavoro di ciascuno di noi che permette alla nostra società di stare in piedi: di avere insegnanti, poliziotti, avvocati, giornalisti, autisti dell’autobus, registi cinematografici, impiegati delle poste e del comune, scienziati e bidelli, ognuno dei quali fa la sua parte in questo mondo. Per questo a tutti noi dovrebbe interessare, al di là di Mastercard, che a tutti noi sia permesso di coltivarlo nel modo migliore che può. Somewhere over the rainbow e così via.
Una banalità: ma se poi pensiamo che in un libero mercato, come quello dell’informazione, un freelance vale quel che riesce a farsi pagare, il fatto che uno di noi accetti di essere pagato poco dovrebbe essere fonte di preoccupazione per tutti, non solo per la su’ mamma e il su’ babbo (e per il fratello economista dal telefonino rovente).