Gli eterni tombini di Roma

Igor Mann su La Stampa

Come cittadino romano (d’adozione) trovo banale nella sua ripetitività lo scambio di accuse destra-sinistra. «Roma, non basta una vita», è il titolo di un libro-cult scritto da Silvio Negro, che intendeva dire come sia difficile, se non impossibile, «capire» Roma, nutrirsi del suo fascino, amarla. E con rammarico che scopriamo in noi un maligno pensiero: non basta una vita: ce ne vorrebbero tante, troppe per rimettere in sesto la capitale.

Non basta una vita, ma che intanto si cominci a riparare i guasti più amari e pericolosi: prendiamo i famosi tombini in ferro antico, molti dei quali recano ancora il sigillo del «fascio».

Il Vecchio Cronista abita da 50 anni nella vecchia Roma, quella degli artigiani. E di disastri ne ha visti e sofferti: si prenda la nevicata che nel 1956 trasformò Roma in un sobborgo di Helsinki, senza naturalmente le attrezzature di quella bellissima città in antica confidenza con la neve, col gelo.

Ecco, sono le attrezzature che mancano, nei casi dei tombini che a ben vedere sono alla fine il guaio più evidente d’ogni uragano o alluvione che sia. Ma perché i tombini dopo quattro goccioloni si intasano? Per colpa dei san pietrini, è solitamente la risposta alla domanda che abbiamo più volte rivolto ai signori del Comune (non facciamo distinzione fra destra o sinistra). Il fatto è, spiegano in Campidoglio, che Roma è tutta un cuci e scuci.