Wikileaks, il bavaglio mondiale

Barbara Spinelli  sul lFatto Quotidiano

Io non so quale sia il reato di cui si sarebbe macchiato Julian Assange, e condivido i dubbi di molti che lo conoscono, sulle indagini riguardanti le sue peripezie sentimentali. Quello che so è che da giorni, e precisamente da quando sono cominciate le pubblicazioni di Wikileaks, mi si accampa davanti, ogni sera in Tv, la faccia di un signore che in Italia fa il ministro degli Esteri e che si agita e che dice che quell’uomo lì va catturato al più presto perché –mirabile a udirsi!– “vuol distruggere il mondo”. Non ricordo un’analoga frase usata per Bin Laden, dopo l’11 settembre 2001. Si disse che voleva distruggere l’America. Ma di abbattere il mondo,
nientemeno, nessuno parlò. Quanto alla religione musulmana, i più ragionevoli seppero evitare contaminazioni, lasciando in cattiva compagnia chi sproloquiò su una civiltà inferiore (Berlusconi, 26-9-2001: “L’Occidente deve esser consapevole della superiorità della sua civiltà”). Non fosse altro perché c’è una sura del Corano (la 3: 97) che in proposito parla chiaro: Dio non si scompone davanti agli increduli, poiché “basta a se stesso e può fare a meno dei mondi”.

Nei file di Wikileaks non c’è un granché, per la verità, ma in fondo non è quello che conta e Frattini lo sa: quel che davvero conta, e che per i governanti italiani è la calamità satanica cruciale, è la rivoluzione dei media, che Wikileaks conferma e amplifica straordinariamente. È l’assalto ai Palazzi d’Inverno, che mette spavento ai falsi troni dove siedono, spesso, falsi re. Anche nell’informazione regnava, fino a ieri, l’ordine westphaliano: ogni Stato sovrano ha la sua informazione, chiusa in recinti nazionali accuratamente separati. Invece ecco che Wikileaks parla del mondo e al mondo, apre su di esso un grande occhio indagatore, sfata re che non sono re, diplomazie che sfangano senza uscire dal fango. I cabli sono spesso insipidi perché insipidi sono i regnanti cui sono riservati. E a poco servono gli sforzi in cui s’imbarca Leslie Gelb, presidente del Council of Foreign Relations, fulminato dalla scoperta, nei dispacci, di una diplomazia Usa zoppicante forse, ma che almeno sgobba per sciogliere nodi planetari; che almeno “si dà da fare”.