Paure e speranze nel futuro delle news

Bernardo Parrella su Apogeonline

Sull’onda di una super-crisi economica stavolta originata dall’interno, sembra procedere inarrestabile anche la caduta della stampa statunitense. Dal 1 gennaio 2008 si sono avuti circa 15.000 licenziamenti nelle redazioni, con ampia flessione di vendite, pubblicità e valori borsistici. Oltre alla dichiarazione di bancarotta per Tribune Co., che vanta testate quali Chicago Tribune, Los Angeles Times, Baltimore Sun, c’è il New York Times che ipoteca la propria sede, il palazzo realizzato da Renzo Piano a due passi da Times Square acquistato appena lo scorso anno, per rastrellare 225 milioni e far fronte a una parte dei propri debiti. Né se la passano meglio i quotidiani minori, con il Miami Herald tuttora in cerca di acquirenti e il San Francisco Chronicle in rosso per 50 milioni di dollari nel 2008, con rischio concreto di una prossima messa all’asta. Un paio di settimane fa, infine, hanno chiuso definitivamente battenti due testate locali in Pennsylvania e soprattutto l’indipendente Rocky Mountain News, quotidiano di Denver con quasi 150 anni e quattro premi Pulitzer alle spalle.

Tendenza confermata dal fresco The State of the News Media 2009, sesto rapporto annuale sullo stato dell’informazione americana, il cui sommario si apre con «alcune cifre da brivido: le entrate dalle inserzioni dei quotidiani sono calate del 23% negli ultimi due anni, uno su cinque giornalisti nelle redazioni oggi è stato licenziato, e il 2009 potrebbe rivelarsi un’annata ancora peggiore. Perfino nelle Tv locali lo staff giornalistico viene drasticamente ridotto e nel 2008, anno elettorale, si è avuto un meno 7% nelle entrate pubblicitarie, cosa mai sentita prima, mentre i rating sono in caduta o statici per l’intero pailinsesto».

Si tratta forse del canto del cigno? Non proprio, intanto perché in realtà la gente continua ad aver fame d’informazione confezionata professionalmente e, come conferma lo stesso rapporto di cui sopra, il pubblico consuma notizie in modi nuovi, soprattutto online, dunque l’industria tradizionale ha tuttora molte frecce al proprio arco. Il punto è semmai che il settore non ha fatto granché per (imparare al meglio come) convertire quest’interesse più attivo e dinamico in soldoni, letteralmente. Conversione che non potrà avvenire se non sperimentando variamente con le potenzialità del digitale, dei social media, del giornalismo partecipativo. Fatto di cui, al di là dei piagnistei sulla presunta morte dei giornali, oggi sembrano finalmente convinti sia i piccoli che i grandi nomi – a partire dallo stesso New York Times.

Prima con l’avvio sperimentale della versione “Extra” della propria homepage, che propone numerosi link ad articoli di diretti concorrenti quali Wall Street Journal, Boston Globe, BBC News, oltre che a una varietà di blog e testate (Huffington Post, Politico, Drudge Report ecc.). Chi volesse poi ulteriori approfondimenti, può saltare al volo su Blogrunner, news aggregator che fornisce la tecnologia per l’iniziativa e che dal 2005 fa parte della scuderia dello stesso New York Times. E poi con il fresco The Local, una partnership tra cittadini-reporter e i redattori della cronaca che ha lo scopo di investire sull’ambito iper-locale (due aree del quartiere di Brooklyn e tre zone residenziali del New Jersey, per cominciare), in collaborazione con la scuola di giornalismo di Jeff Jarvis.

In quest’ambito va segnalata la battaglia per occupare lo spazio dell’iperlocale nelle metropoli della East Coast, in primis proprio nell’affollato New Jersey, poi a Boston, con il concomitante lancio di Patch, progetto in cui è coinvolto addirittura Google. Oltre agli scetticismi e ai primi fallimenti, sono partire anche delle denunce, poi appianate, a riprova delle alte speranze risposte nei network di giornalismo locale – dove si spera di recuperare quegli introiti legati ai piccoli annunci “rubati” alle grandi testate dalla valanga delle Craigslist localizzate. Perché è chiaro che, comunque vada, inserzionisti e imprenditori dispositi a investire in aree o progetti così ristretti non sono certo molti.

C’è poi chi si affida definitivamente al web, percorso compiuto nei giorni scorsi da un’altra testata storica, il Seattle Post-Intelligencer della Hearst Corp., in vita da 146 anni e maggior quotidiano dell’intero Paese ad aver abbandonato la carta stampata. Il giornale tirava 117.000 copie quotidiane, rispetto alle 198.000 del suo rivale cittadino, The Seattle Times: com’è capitato al Rocky Mountain News di Denver, se lo spazio si restringe per due testate cartacee, l’online offre qualche soluzione. Tant’è che anche quest’ultimo s’appresta al rilancio solo in digitale, con 30 ex-redattori che stanno per dar vita a InDenver Times – purché entro il 23 aprile arrivino 50.000 abbonamenti a 4,99 dollari al mese, per un totale di 250.000 dollari a garanzia di stipendi e costi gestioniali, a cui si aggiugeranno gli investimenti di alcuni imprenditori locali.

Il fatto che la proposta decolli dipende prima di tutto dai cittadini: non solo per l’obolo obbligatorio, ma anche in virtù del loro diretto coinvolgimento nella produzione e condivisione di un’informazione variegata, diversificata, al passo con i tempi. Quei contenuti prodotti dagli utenti di cui le grandi testate non dovrebbero solo appropriarsi in modo gratuito, ma rispetto ai quali al contrario hanno l’opportunità di avviare un circolo virtuoso della compartecipazione e della disintermediazione a più levelli. Proprio come ribadiva un recente intervento di Jay Rosen: «Sistemi editoriali chiusi e aperti, la stampa e la sfera connessa, non sono entità separate ma altamente interattive l’una con l’altra nel mercato dell’informazione».

Un quadro complessivo ripreso dai concomitanti interventi di due critici culturali americani, Steven Johnson e Clay Shirky. Il primo, durante il South By Southwest Interactive Festival in corso in Texas, si concentra sul futuro dei media partendo da un passato neppure troppo lontano, quando per avere notizie e indiscrezioni ci si affidava ai colossi dell’editoria tradizionale (perfino nel campo high-tech, da MacWorld fino a Wired). Alla metà degli anni ’90 il boom di Internet ha stravolto tutto: «Il mondo dei media odierno è ben più vario e interconnesso, un sistema di flussi e rilanci completamente diverso da una catena di montaggio. Assai più vicino all’ecosistema del mondo reale nella cirolazione delle informazioni, al contrario dei vecchi modelli industriali dei mass media top-down».

Questo è vero anche in campi come l’informazione politica in rete: originale, autosufficiente e spesso in netto anticipo sui media tradizionali. Anziché versare lacrime di coccodrillo per l’attuale sorte dei quotidiani, suggerice Johnson, dobbiamo aprire gli occhi sul fatto che «il vecchio e il nuovo si integreranno in modi che per prima cosa taglieranno fuori quel potere che credevamo di avere nelle nostre mani, applicando quel darwinismo sociale che pensavamo potesse accadere solo agli altri e mai a noi stessi». E mentre il web non potrà mai sostituire il Village Voice (storico settimanale gratuito di New York City), un’iniziativa come New Assignment non ha più molto di simile a un tradizionale quotidiano. Ben più che del parassitismo di un settore sull’altro, dovremo aspettarci «più contenuti, non meno: più informazione, analisi, precisione, un’ampia gamma di nicchie emergenti».

Clay Shirky spiega che la crisi economica dei giornali deriva soprattutto dalle enormi spese per le rotative e per la gestione del cartaceo, e ancor più che il «business dei media è stato stravolto dai nostri nuovi ruoli e libertà. Non siamo più lettori, né ascoltatori o telespettatori. Non siamo clienti e sicuramente neppure consumatori. Siamo utenti». Di conseguenza, quel che conta è pensare a modalità innovative per fare informazione, non alla sopravvivenza o meno di giornali e riviste cartacee. «Dovremmo occuparci di nuovi modelli per rivitalizzare i reporter piuttosto che risuscitare vecchi modelli per foraggiare gli editori; più tempo perdiamo a fantasticare su soluzioni magiche per quest’ultimo problema, meno tempo abbiamo per trovare soluzioni concrete al primo». Ha senso, allora, preoccuparsi per il futuro dei quotidiani e, soprattutto, per come andremo a sostituirli? Meglio non mentire, insiste ancora Shirky, facendo finta di non trovarci nel mezzo di una rivoluzione oppure affermando che «il vecchio sistema non possa frantumarsi prima che ne nascano di nuovi e che gli antichi contratti sociali non siano in pericolo».

Non resta dunque che salvare il salvabile, come stanno facendo diversi attori mainstream statunitensi. Oppure buttarsi nella sperimentazione, come provano a fare altri. In un caso e nell’altro, nulla di buono potrà uscirne fuori senza la partecipazione diretta, fattiva, costruttiva di ciascuno di noi. Questo è poco, ma sicuro.