Il sano ritorno alle origini: il futuro dei media è fare le cose bene

Via Luca Sofri

Quindi per capire cosa saranno i media del futuro, vediamo di capire cosa sono i media del presente, e provo a spiegare perché ho chiamato questo mio intervento “il darwinismo applicato ai media”. Inciso: sì, dico “midia”, nella pronuncia inglese. Un po’ per abitudine e perché penso che le pignolerie linguistiche siano una delle grandi pigrizie che sostituiamo a impegni più ambiziosi, e un po’ perché la natura dei media di cui parliamo ha molto più a che fare con la cultura americana che con quella degli antichi romani.
Mi interessa fare un discorso che abbia a che fare peculiarmente con l’Italia, perché penso che il nostro paese meriti maggiori chances di partecipazione all’innovazione tecnologica e culturale di quelle in cui lo hanno rintanato le mediocrità umane che ne hanno governato politiche e cultura negli ultimi decenni. E credo che ci siano gigantesche opportunità di miglioramento in questo senso.

Come hanno osservato in molti, lo scenario più plausibile rispetto all’informazione dei prossimi anni – parlo di pochissimi anni prevedibili: solo nel 2025 smetteremo di morire, secondo alcuni, e questo cambierà parecchie cose – è quello di un affollamento di fonti e canali di informazione di generi molto diversi. Un simile disordine è oggi spaesante per chi è abituato alle semplificazioni in categorie – giornali, radio, tv; fatti separati dalle opinioni; eccetera – ma ci stiamo già abituando: il disordine e l’accavallamento di contenuti non sono negativi di per sé. In questo disordine, la selezione naturale eliminerà molti produttori di informazione consolidati: di certo perderemo qualcosa – ogni cambiamento implica una perdita: ma questo avviene già da sempre, e ognuno ha I suoi esempi di prodotti editoriali che non esistono più e gli mancano – e altrettanto certamente molto di quel che perderemo saranno duplicati, superfluo, cose non indispensabili al nostro progresso culturale e sociale.
Ma io credo che i più forti si adatteranno e sopravviveranno, perché non c’è dubbio che il buon giornalismo è un’arte straordinaria e di cui c’è tuttora richiesta, se esso si dispone a collaborare per cambiare il mondo e non solo ad esserne cambiato. Le tecnologie, dai readers al mobile fino all’Apple Tablet di cui ora si parla insistentemente anche per quel che significherà nella distribuzione di news, modificheranno senz’altro – lo hanno già fatto – il nostro rapporto con le informazioni: ma offrono anche grandi opportunità per reinvestire in grandi qualità giornalistiche. Ciò che può salvare il giornalismo, qualunque forma esso assuma, e che manca oggi a molto di quello che viene prodotto in rete, è il ricorso a una cosa che si chiama retoricamente e banalmente etica. L’etica del fare le cose bene, l’etica della correttezza, l’etica della qualità, l’etica della verità. La vecchia idea, come ha scritto Mark Bowden sull’Atlantic Monthly, che quello che stai facendo è scrivere quello che pensi tu, e non quello che pensa qualcun altro, sia il tuo caporedattore, il tuo editore, lo stilista o il produttore di videogiochi che ti manda gli omaggi, o la tua curva politica:
“Journalism, done right, is enormously powerful precisely because it does not seek power. It seeks truth”

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