Gli imprenditori piemontesi e la sentenza Thyssen

Via La Stampa

Passato il momento di confusione del dopo sentenza Thyssen, il presidente dell’ Unione Industriale di Torino, Gianfranco Carbonato, torna sulla pesante decisione del tribunale di Torino che ha condannato per omicidio volontario (16 anni e mezzo) l’Ad dell’ acciaieria tedesca Harald Espenhahn per il rogo in cui morirono 7 operai. L’analisi, a qualche giorno di distanza, è più dura delle risposte a caldo.

Presidente, cosa la preoccupa della sentenza Thyssen?
«Innanzitutto l’anomalia. Non mi risulta che l’ipotesi dolosa sia mai stata contestata su un incidente sul lavoro nemmeno quando è avvenuto in luoghi di conclamata illegalità e lavoro nero. Siamo gli unici in Europa e questo mi preoccupa perché penso agli investitori stranieri. L’immagine che diamo all’esterno non invita un’impresa a scegliere l’Italia. Se il modo di ragionare della procura e della Corte d’assise dovessero diffondersi nel Paese sarebbe un gigantesco “regalo competitivo” agli altri».

Lei crede si possa sacrificare la sicurezza in cambio dell’investimento?
«Proprio il contrario. Sono preoccupato perché, seguendo questa linea di pensiero, lavoro e sicurezza rischiano di finire in contrapposizione. E questo sarebbe un danno per tutti».

Secondo lei perché si è arrivati a una decisione come quella della corte d’assise di Torino?
«Questa impostazione giuridica, che intende contestare il dolo nelle situazioni in cui non si fanno tutti gli investimenti “tecnicamente” possibili sembra essere frutto di emozione, se non di valutazione ideologica. In questo modo s’intenderebbe affermare che sul lavoro si è penalmente responsabili di tutto quello che non sia teoricamente e tecnicamente perfetto!».

Non le sembra che siano proprio colpa e dolo a differenziare le responsabilità di un imprenditore che ha sempre fatto di tutto per l’incolumità dei propri dipendenti da quello che non fa fare corsi antincendio, che disloca investimenti per la sicurezza in altri stabilimenti e fa fare visite “teleguidate” agli organi di controllo?
«Quello che mi sconcerta nella sentenza è la presunzione di dolo. Le imprese non hanno fondi illimitati, un amministratore delegato deve fare delle scelte. Ma se queste hanno conseguenze tanto gravi, chi vorrà più fare l’amministratore di una società? Penso all’amministratore pubblico che deve guidare un luogo di lavoro pubblico che sappiamo essere molto lontano dal “tecnologicamente” perfetto e anche al manager privato che rischia una sorta di “roulette russa” della responsabilità perché con il “tecnologicamente possibile” si può sempre dimostrare l’inadeguatezza di ciò che si fa normalmente».

Quindi è una sentenza da «migliore dei mondi possibili»?
«Questo approccio astratto dimentica che non sono meno gravi le perdite di vite per infortuni stradali e domestici, quasi 10mila all’anno, mentre il lavoro continua a migliorare i propri standard: meno di mille, con oltre la metà nel tragitto casa-lavoro».

Secondo lei in Italia si fa abbastanza per la sicurezza sul lavoro?
«La sicurezza si migliora con la prevenzione e la formazione. Questo dolo contestato per presunti mancati investimenti sembra dimenticare il dato più eclatante: la stragrande maggioranza degli infortuni dipendente direttamente, e in molti casi esclusivamente, dal fattore umano».

Se si fa tanto per la prevenzione e la formazione, perché siete preoccupati di un effetto domino della sentenza Thyssen?
«Perché l’impostazione di Torino può essere replicata senza peraltro migliorare realmente la sicurezza ma insinuando un clima da “caccia alle streghe” agli amministratori delegati».