La giungla senza ordine e la sindrome nimby del giornalismo italiano

Il presidente dell’Odg Iacopino scrive una lettera al direttore della Stampa mischiando serio e faceto, cose importanti e artifici retorici in una specie di sindrome nimby del giornalismo italiano. L’ordine concettualmente ha un senso, ma fino adesso ha fatto pochissimo di quello che avrebbe dovuto nel passato e nel presente, tutelando ricchi e potenti piuttosto che lo stato di diritto. Una soluzione ci sarebbe: un governo tecnico del settore fatto da persone che arrivano dal campo, senza pregressi nel settore e nelle sue mafiette.

Caro direttore, Sono un lobbista. Lo confesso. Un lobbista del diritto dei cittadini ad avere una informazione non solo libera (e sarebbe gran risultato perché è obiettivo non completamente raggiunto) ma rispettosa delle persone, della loro vita, della loro sensibilità. E, non ultimo sia chiaro, della verità. È per questo che sono un “lobbista” dell’Ordine dei giornalisti, della sua esistenza e del rafforzamento del suo ruolo. Un esempio, per spiegarmi meglio? Giorni fa, con un infortunio grave, sono state pubblicate su due importanti siti le foto del recupero di quel che restava del corpo di Sarah Scazzi. Una vergogna per tutti i giornalisti. È stato l’Ordine ad intervenire chiedendo che quelle foto fossero rimosse (e ringrazio chi lo ha disposto), annunciando che sarebbero stati avviati procedimenti disciplinari perché quella non è un’informazione che rispetta le regole che ci sono nella nostra professione. Senza l’Ordine sarebbe giungla. Basti pensare al rispetto che le nostre regole hanno imposto a tutela dei minori. Non ci sono leggi dello Stato (che peraltro avrebbero tempi di applicazione inenarrabili), ma c’è la Carta di Treviso, orgoglio e patrimonio condiviso dei giornalisti perché si preoccupa di chi  non ha voce. Non si tratta di difendere una “casta” o di opporsi a riforme che sollecitiamo vanamente da anni e che saremo felici di contribuire a costruire in un confronto sereno con il governo presieduto da Mario Monti. Si tratta di evitare che si ragioni per mucchi. Come si può ipotizzare di mettere i giornalisti nel calderone delle liberalizzazioni? Non ci sono limiti all’accesso alla nostra professione, né territoriali né quantitativi; si deve partecipare (o lo si dovrà fare ancora di più) a corsi di formazione che in alcuni casi durano già i 18 mesi previsti dalle nuove norme. E, di grazia, qual è l’attività economica che i giornalisti esercitano? Il solo contatto che abbiamo con l’economia è che in decine di migliaia tra noi vengono pagati poco: anche meno di due euro lordi ad articolo, senza distinzione alcuna tra professionisti e pubblicisti, con questi ultimi che hanno mutato identità e sono sempre più linfa vitale per l’informazione. Il nostro mestiere è radicalmente cambiato, anche per la crisi generale e del settore. Chi è impegnato in prima linea sa che fare informazione comporta molti pericoli. Le mille minacce delle criminalità comune, economica e non solo sono lì a testimoniarlo. E si aggiungono all’aggressione sistematica con iniziative legali che non puntano al ristabilimento della verità, ma a mettere il bavaglio a chi fa informazione, tentando di intimidirlo per il lungo tempo che l’amministrazione della giustizia civile richiede.
I giornalisti non fanno più il lavoro affascinante d’un tempo. Certo, c’è qualche star che quasi tutto può. Mai più hanno compiti solo episodicamente gratificanti. Insistono solo per dar sfogo ad un sogno e ad una passione: sapere per spiegare, capire per aiutare i cittadini a formarsi un’opinione, permettendo loro di essere consapevoli nel momento delle scelte. Altro che “casta” dovremmo essere considerati e difesi come un patrimonio della società!