Il crac dell’Inpgi costerà allo Stato 1,6 miliardi di euro e porterà molti giornalisti alla povertà per arricchire altri

Via Giorgio Levi

Su Il Fatto Quotidiano di oggi segnalo le due pagine dell’economia dedicate alla crisi che sta travolgendo il mondo dell’editoria. I temi sono tre.

L’apertura dedicata alla situazione drammatica dell’Inpgi: Pensioni dei giornalisti, il crac costerà allo Stato 1,6 miliardi di euro.

Un pezzo sulla folle corsa ai prepensionamenti: Gli editori reclamano 330 uscite anticipate per salvare i loro conti.

E un altro sul finanziamento pubblico all’editoria: I fondi pubblici finanziano pure i maxi stipendi a pochi editori.

Va dato merito al Fatto di avere dedicato uno spazio così ampio e dettagliato su un tema del tutto ignorato dai grandi quotidiani, che per convenienza fingono che non esista, se si fa eccezione per Il Foglio e Il Sole 24 Ore. In realtà non c’è nulla di nuovo, per chi si occupa di editoria quotidiana, ma vale la pena puntualizzare alcuni passaggi. Il resto sarebbe però bene leggerselo acquistando il giornale di Marco Travaglio.

Inpgi. Sul trasloco dei cosiddetti comunicatori (14.500 lavoratori assimilabili ai giornalisti) da Inps a Inpgi, su cui l’istituto dovrebbe costruire un piano strutturale di risanamento a lungo termine, e che secondo i vertici di Inpgi salvare il baraccone in perdita (più di 250 milioni di debito) ed evitare il commissariamento, Il Fatto scrive: “L’ingresso dei comunicatori è stato recepito dal Parlamento nella legge 58 del 2019 ed è previsto dal 1° gennaio del 2023. Ma il trasloco dei comunicatori all’Inpgi non sarà a costo zero. Per l’operazione la legge 58 ha accantonato nel bilancio dello Stato 1 miliardo e 575 milioni fino al 2031 e altri 191 milioni ogni anno in avanti”.

Da qui l’ipotesi del presidente di Inps Pasquale Tridico di far assorbire Inpgi da Inps, soluzione osteggiata con toni molto accesi da Fnsi.

I prepensionamenti. Sulla crisi di Inpgi pesano moltissimo le mancate contribuzioni dei giornalisti, gli editori non assumono più e quando lo fanno introducono nelle redazioni figure professionali diverse dai giornalisti tradizionali. Basti pensare al caso della Stampa che a fronte di 2 uscite prevede 1 assunzione , ma tre nuovi ingressi non saranno giornalisti bensì soggetti a supporto della redazione e in possesso di competenze professionali coerenti con la transizione al digitale. Così sta scritto nel documento d’intesa con la direzione, riportato qui da questo blog, approvato dall’assemblea dei giornalisti. Scrive Il Fatto: “Fnsi e Stampa Subalpina hanno già dichiarato che non firmeranno questo accordo”.

D’altra parte il Gruppo Gedi si fa forza della legge 160 del 2019 che ha finanziato l’ultima tornata dei prepensionamenti e che prevede questo tipo di assunzioni. Insomma, ingegneri, media scientist, tecnici informatici. Tutto, ma non giornalisti. E soprattutto figure che non hanno riferimenti contrattuali con contribuzioni Inpgi, che aggiungerà così alle sue casse perdite a perdite. Il totale dei prepensionamenti di tutti i gruppi in Italia dovrebbe essere di oltre 300 uscite, il cui costo ricadrà ovviamente su Inpgi.

Bravi, i nostri editori. Ma non tocchiamoli nel portafoglio. Che non si sa mai.

I fondi pubblici. Un pezzo breve per tornare sulla dibattuta questione dei fondi pubblici all’editoria, politica fortemente osteggiata dal M5S, e soprattutto dall’attuale reggente (per poco) Vito Crimi, che aveva predisposto, nel primo governo Conte, un piano di tagli alle cooperative, fino ad arrivare all’azzeramento dei contributi. Già a quel tempo Il Fatto Quotidiano (che non riceve finanziamenti) si era schierato con il M5S. Oggi propone l’elenco di tutti i quotidiani, già riportato qui da questo blog, i cui conti sono sorretti dai soldi dei contribuenti italiani.

E conclude: “Ma allo Stato che paga non interessa nè importa quanta parte degli aiuti pubblici va in maxi stipendi per direttori amici“.