In arrivo lo tsunami del giornalismo: è ora di fare pulizia

Via Stefano Tesi

Prima i malumori striscianti e traversali ignorati per molti, troppi per anni. Poi gli sfoghi di esasperazione dei singoli, sciaguratamente confusi per sintomo di crisi personali. Quindi le ripetute e sempre minimizzate manifestazioni di aperto dissenso (chi si ricorda i “fantasmi dell’informazione”?), quasi sempre scambiate per giochi di correnti o per gli strepiti di gruppuscoli isterici. Dopo, ecco i primi sondaggi. Lo stupito spavento, la palese sensazione di incredulità dei vertici verso una base che tanto base più non è. E tantomeno si sente fondamento (la Carta di Firenze delle scorse settimane e i correlati rumori, che hanno dato voce a quel 60% di giornalisti italiani che il sistema ha finora bellamente ignorato, ne sono stati non la spia, ma la significativa conseguenza). Infine l’assalto dei “redattori di fatto” all’immancabile quacquaracqua che i soliti noti hanno messo in piedi giorni fa nel sancta santorum del pennismo nazionale: il Circolo della Stampa di Milano, simbolo del giornalismo e sua massima sede liturgica, dove tristemente si celebrava la solita pantomima pseudosindacale su “Precari, Autonomi, Freelance: nuove frontiere della professione giornalistica”.

E adesso, che si fa? La maggioranza della plebe sta scappando di mano. Questo, forse, qualche capataz l’ha afferrato. Ma tardi. E senza avere i mezzi per fermare l’emorragia, né l’autorità per chiudere il rubinetto. L’allagamento è diventato un’alluvione e potrebbe trasformarsi in uno tsunami. Nel frattempo la professione ha perso la bussola: i precari reclamano assunzioni impossibili, i liberi professionisti attaccano la penna al chiodo o scendono nell’arena diabolica della doppia morale (leggi commistione tra pubblicità e informazione). Il popolo dei sottopagati, invece di dedicarsi profittevolmente ad altro, alimenta la propria condizione accettando lavori che costano soldi, anziché dare un reddito.

E il problema è che, quando la trave cede, il tetto crolla. Tutto. Senza star troppo a distinguere buoni da cattivi, bravi da incapaci, contrattualizzati e non contrattualizzati. Bisognerebbe fare come i topi: scappare prima che la nave affondi. E invece qualcuno, anzi parecchi, continuano a ballare come se niente fosse, Titanic style. Insomma, finiremo come i topi o come le ballerine. E non è una bella prospettiva.