Della dignità del giornalismo e degli uomini contro un sistema che la lede

Via Stefano Tesi

Come tutte le cose, anche la dignità ha un principio e una fine. Senza l’uno o senza l’altra, resta un concetto vago, indeterminato. Prendiamo ad esempio – argomento ahimè attualissimo: ahimè nel senso che è di attualità sostanziale da almeno quindici anni, ma è diventato “di moda” solo da poco, quando i buoi sono irrecuperabilmente scappati dalla stalla – la dignità di un libero professionista.
Si fa presto a dire che la sua dignità è lesa quando non trova lavoro, o è costretto ad accettare compensi umilianti, o tempi di pagamento infiniti, o incarichi non consoni alla sua preparazione e alle sue qualità professionali. Bella scoperta. Questo è l’inizio. Poi, però, c’è la fine. Ovvero: fino a che punto il professionista è tenuto ad accettare quanto sopra prima di rinunciare alla propria dignità? In altre parole: a partire da che punto egli per primo manca di rispetto a se stesso, sacrificandola, ed è quindi l’artefice di ciò di cui si lamenta? Dove finisce la vittima e comincia il masochista? E a chi, quando, come, perchè spetta di vigilare, accertare, intervenire, sanzionare, regolamentare la materia? In tutto ciò i contrattualizzati che ruolo e quale responsabilità hanno? Sono colleghi o controparti? Non sanno, non capiscono o fingono di non vedere? O semplicemente se ne fregano?


Sono domande che i giornalisti e le loro organizzazioni non amano sentirsi porre, perchè recitare il ruolo delle vittime di una controparte cattiva e sfruttatrice piace a tutti. Piangere, paga. Se non in denaro, anche in solidarietà, in ruolo sociale e nella convinzione di stare a priori dalla parte del giusto.

Lo sarà se nell’occasione la categoria riuscirà finalmente a uscire dai minuetti politici, dalle ipocrisie delle reciproche e inutili legittimazioni formali, dalla retorica della pari (ma inesistente) dignità tra le diverse tipologie dei colleghi. E se saprà guardarsi in faccia senza troppe timidezze. Rendendo esplicito ciò che è già in atto, ma sottaciuto: l’annacquamento forzato e colpevolmente artificioso della categoria da un lato, la caduta a picco sia delle opportunità di lavoro che dei suoi margini economici.
Se, anche, riuscirà a far piazza pulita dell’interessata cortina fumogena che tende a rendere sfuocati i confini tra le diverse subcategorie. A far capire che il libero professionista (il freelance con partita iva, cioè) non è un precario e che con i precari non potrà quindi aver nulla a che spartire, anzi ne sarà spesso un diretto concorrente. A far capire che i collaboratori di una sola testata non possono, per le stesse ragioni, essere considerati liberi professionisti, ma, secondo i casi, abusivi o co.co.pro. o qualcosa di simile. Che gli stagisti non sono giornalisti. Che i pubblicisti sono una categoria utile, ma divenuta così generica da aver perduto ogni significato. Che i giornalisti pensionati sono una risorsa preziosa per i giornali e per i colleghi, ma solo se non fanno concorrenza sleale scrivendo articoli gratis o nummo uno, vivendo della pensione, e se capiscono che le redazioni non sono l’alternativa alle panchine dei giardinetti. Che il 70% del pubblicato è prodotto fuori dalle redazioni. E che, forse (non ho paura di farmi nemici), si potrebbe anche cominciare a discutere se un pezzetto da 10 righe di informazioni copiaincollate sia, economicamente e contrattualmente parlando, considerabile sempre un articolo giornalistico, visto che chiunque, senza la minima preparazione pratica e teorica, è oggi in grado di scriverlo e in sostanza già lo fa. Gratis, pure.