I media italiani quasi tutti clementi con Matteo Renzi hanno perso anche loro

Il voto referendario rappresenta il fallimento dei giornaloni italiani e delle testate giornalistiche delle TV che hanno lasciato passare ogni violazione di Matteo Renzi e ogni sua comunicazione senza verificarla se non in maniera marginale.
Questo non vuol dire che fosse necessario fare come ha fatto il Fatto Quotidiano una campagna per il No, ma semplicemente fare un’informazione corretta e non spesso pilotata che analizzasse correttamente le cose, la comunicazione politica, le minacce possibili e le distorsioni create nella comunicazione.
Il tradimento dei cittadini da parte di  coloro che hanno vessato Berlusconi e vezzeggiato e lasciato agire impunemente Renzi e hanno sostenuto una riforma mal fatta, rappresenta la resa di un passato che oramai si sta sfilacciando: la fine dei media che si sono venduti per salvarsi. Domani è un altro giorno.
Marco Travaglio commenta la situazione a caldo poco dopo i risultati referendari e dopo le dimissioni di Renzi.

Aggiornamento : Articolo sui tema di Dagospia

Nella domenica della lunga maratona televisiva facevano quasi pena le facce dei commentatori a mezzo stampa che si arrampicavano sugli specchi levigati con la lingua slurpina nel tentativo (vacuo e maldestro) di coprire le vergogne dei giornaloni in cui lavorano. Le gazzette di Rignano che da mesi avevano sfilato compatti al fianco del Ducetto Renzi nella battaglia referendaria sulla riforma costituzionale.
mario calabresi eugenio scalfari

E fingendo neutralità tra le forze in campo hanno coperto sotto il tappeto della vergogna le patacche e le bugie che Pittibimbo gli rifilava quotidianamente. La sua apparizione in tv con la scheda taroccata che avrebbe consentito agli elettori di scegliersi i propri senatori (negata dalla legge in votazione) è stata una idea che neppure gli autori dei falsi Modigliani avrebbero potuto escogitare.

Così, quando sulla La7 condotta dal bravo Enrico Mentana, Marco Travaglio gli ha rivolto la domanda come mai nelle redazioni del Corriere, della Repubblica e della Stampa non avevano nemmeno avvertito lo tsunami che si stava abbattendo nelle urne, i nostri eroi di carta replicavano balbettanti – fuori tema come di diceva a scuola – che non c’era stato alcun endorsement tra le loro testate e il “Sì”.

Aldo Cazzullo, firma di punta (e di tacco) di via Solferino buttava subito la palla fuori dal campo (polemico) vantandosi di aver fatto un’intervista allo scrittore Andrea Camilleri fautore convinto del “No”. Marcello Sorgi, notista politico del quotidiano torinese, si contorceva sulla sedia, diventata improvvisamente elettrica, borbottando una mezza difesa del suo direttore.

Già, il cordiale San-buco Molinari, ospite in altre trasmissioni, che intanto continuava a battere la strada (ormai franata) dei populismi che vincono anche nel resto del mondo. Ma alle elezioni politiche, non nei referendum sulla magna carta, nel gli andava forse fatto osservare. Con l’aria saputa del finto tonto, anche il nipotino di Giuliano Ferrara al Foglio, Claudio Cerasa, si tormentava nervosamente le mani nello sforzo di nascondere dietro quel mostro dell’antipolitica, il trionfo dell’”accozzaglia” raccolta sul “No”.

Uno slalom dialettico, il loro, degno del miglior Gustav Thoeni ai tempi in cui dominava sui campi di sci. Che però non gli evitato rovinose cadute.

Tant’è che il direttore de il Fatto, Marco Travaglio, ha dovuto fargli presente che nella sua domanda si chiedeva altro: perché i vostri giornaloni non sono, in buona sostanza, in sintonia con l’opinione pubblica che immaginate di rappresentare? E perché avete perdonato al Ducetto di Rignano d’Arno tutte le malefatte commesse dagli ormai moribondi di Palazzo Chigi?

Una domanda dal sapore retorico, a ben vedere. Ben sapendo che da lungo tempo i lettori-accozzaglia (e non solo) hanno voltato le spalle alla stampa dei Poteri marciti. E che si è rotto il rapporto, per esempio, tra Milano e il suo Corrierone, che insieme al rivale la Repubblica viaggia in edicola sotto le 200 mila copie.

E sul “tradimento editoriale” del quotidiano fondato da Scalfari, sui cui si sofferma un po’ tardivamente pure Giovanni Valentini nel suo pamphlet “La Repubblica tradita”, PaperFirst, si potrebbe solo aggiungere che tra qualche anno tutti si chiederanno perché il sommo Eugenio abbia abbandonato la barricata d’idee forti e libere che in oltre sessant’anni aveva edificato e difeso prima con l’Espresso e poi con la Repubblica.

Cos’è questo turarsi il naso alla Montanelli per sostenere le cause perse del cazzaro Renzi? Perché rivelare che il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, sarebbe favorevole al sì referendario mettendolo in serio imbarazzo?

Né possiamo immaginare che il fondatore abbia preso ordini dalla proprietà di Carlo De Benedetti, uno dei principali pupari del governo di nani e grembiulini nato a guida Renzi. L’Ingegnere che, stando ai rumors, dopo la vittoria del “No” e per riposizionare la linea politica del giornale in calo di copie, potrebbe a breve liquidare l’attuale direttore della Repubblica, Mariopio Calabresi, per sostituirlo con l’ex direttore del Corriere Flebuccio de Bortoli, antirenziano della prima ora.

Del resto De Benedetti sa benissimo che l’annunciata traversata nel deserto del suo Matteuccio per tornare al potere è un’impresa quasi impossibile. In passato ci riuscì Silvio Berlusconi, ma allora il Cavaliere era il padrone del suo partito (Forza Italia), aveva soldi, tv e giornali (cammellati) per compiere quel viaggio che per Renzi oggi è soltanto un miraggio.