L’insolubile caso dei giornali

Via Luca Sofri

Improvvisamente tutto il dibattito sul futuro dei giornali è stato travolto da un intervento di Clay Shirky.
Clay Shirky è un professore alla New York University che si occupa da tempo di internet e di condivisione di contenuti in rete. Martedì esce in Italia per Codice il suo libro, e nel nuovo numero di Wired italiano che esce la prossima settimana c’è una sua intervista, fatta dal titolare, qui. Aveva avuto una maggiore notorietà anche qui da noi l’anno scorso quando Internazionale tradusse un suo articolo che rifletteva sul diverso approccio di chi guarda la tv e chi fa le cose su internet: il titolo era “Stiamo cercando il mouse” e si riferiva all’aneddoto di una bambina che Shirky aveva visto armeggiare misteriosamente dietro un televisore, e che alla domanda su cosa stesse facendo aveva risposto “sto cercando il mouse”.

Oggi Shirky ha pubblicato sul suo blog un’analisi sul presente – non il futuro, e questo è già un punto – dei giornali, ed è un’analisi formidabile. Per diverse ragioni.
Intanto perché conduce a un tipo di conclusione che non è mai tenuto abbastanza presente quando si discute su come affrontare dei problemi o che soluzione trovare: ovvero l’ipotesi che alcune cose non abbiano una soluzione individuabile. È una capacità di visione che a me interessa molto e che penso sia spesso rimossa ciecamente dall’orizzonte di analisi le più varie: certe cose cambiano e non sono più come prima, certe cose hanno un prezzo, certe cose non si risolvono senza perdite. Certe cose non si sa come andranno a finire: e chi pretende di indovinarlo non ha nessuna attendibilità.

Il suo articolo  era stato preceduto da altri due pezzi in cui Shirky spiegava quanto i fatti abbiano già accantonato l’ipotesi di micro o piccoli pagamenti per salvare i giornali – ipotesi tornata a circolare in queste settimane di panico – e come il paragone con la musica e iTunes sia improponibile.
Adesso Shirky ripete quello che dicono in molti: le nostre società non hanno bisogno dei giornali, ma del giornalismo. E racconta di come l’avvento della stampa non fece sì che il giorno dopo si trovasse un nuovo modo di relazionarsi con la cultura, la lettura, la condivisione delle informazioni. I nuovi modi vennero da sé in modi inaspettati e passarono per ulteriori invenzioni apparentemente minori, come la riduzione della dimensione dei libri.
Oggi c’è stata una rivoluzione, dice Shirky: e questo è innegabile, non la si può trattare come una semplice novità di cui tenere conto e assestare il sistema. Una rivoluzione travolgente. Così come si è sempre detto che i giornali erano un prodotto perfetto e lo dimostrava la loro immutabilità negli ultimi due secoli, adesso è evidente che quella perfezione è andata a gambe all’aria.

E ciò che sostiene tutti i nuovi modelli di business per i giornali di cui si parla in questi giorni è solo una fragilissima e umanissima ragione: che la scomparsa dei giornali as we know them fa paura. Ma questo non basta a rendere meno plausibile quella scomparsa.

Ho sintetizzato e citato alcune cose. Vale la pena di leggere tutto il pezzo. Comprese le conclusioni, che deluderanno chi è in cerca di risposte chiare e scenari futuri. Le risposte chiare sono rare, e a volte non ci sono proprio: e a volte gli scenari sono inimmaginabili. Questa è una di quelle volte.