Colt, Ipad, Apple, Google, Facebook, media, Far West, editori: dove passa il business ?

Carlo De Benedetti via Sole24Ore

«L’iPad cambia irreversibilmente il panorama del mondo dell’informatica contemporanea». L’ha detto Steve Jobs il 9 aprile alla presentazione di iAd, il suo nuovo sistema di gestione pubblicitaria per l’iPhone e l’iPad. Forse è vero. La sua Apple sta vivendo l’avventura più esaltante da quando l’azienda è stata fondata, nel 1976. In due settimane si appresta a superare il milionesimo iPad venduto: c’è addirittura un sito, labs.chitika.com/ipad, che in tempo reale aggiorna su quanti tablet sono stati consegnati ai clienti negli Stati Uniti, quasi fosse il contatore delle offerte durante Telethon. A 600 dollari a pezzo, fanno 600 milioni di dollari. Mentre gli iPhone attivi nel mondo stanno raggiungendo quota 100 milioni, tra qualche settimana l’iPad arriverà anche in Italia.

E ora Apple pretende la sua fetta della Grande Torta, quella pubblicitaria, con iAd, che inserirà i messaggi degli inserzionisti sulle applicazioni dei dispositivi mobili, girando una quota del ricavo agli sviluppatori. I conti li fa Jobs: «Se dieci spot appaiono su ogni iPhone, si ottiene un miliardo di contatti giornalieri». Se anche solo metà delle 185mila applicazioni dell’iPad accettassero pubblicità, quanti soldi migrerebbero da altrove su questa nuova piattaforma?

Allora è lui, Jobs, il vincitore? Non giurateci. Senza fanfare a metà dicembre – secondo il calcolo dell’agenzia ComScore – in Italia c’è stato il sorpasso di Facebook ai danni di Google in minuti spesi, mentre in gennaio il distacco in visitatori tra il motore di ricerca e il social network – rispettivamente primo, con 21 milioni, e secondo in questa classifica di Audiweb NetView – s’è ridotto a poco più di cinque milioni contro gli otto di un anno prima. Facebook macina crescite impressionanti nel nostro paese: tra il 2008 e il 2009 ha avuto un incremento di utenti del 2.700 (sì, duemilasettecento) per cento. Di meglio ha fatto solo la Turchia.

Si calcola che in Italia gli iscritti al social network fondato da Mark Zuckerberg siano 14 milioni, con una permanenza sul sito nel corso del mese di 6 ore e 27 minuti a testa, un’ora in più della media europea. Sono centinaia di migliaia i “nativi Facebook” che si sono avvicinati al web solo per usare il sito di condivisione. Adesso, poi, cominciano ad arrivare i ricavi “buoni”, quelli della Grande Torta. Pepsi Cola ha aperto la strada: per la prima volta dopo 23 anni non ha investito sullo spot per la finale del Super Bowl, il più importante evento televisivo americano, e ha dirottato buona parte dei 20 milioni di dollari di budget su Facebook, perché è lì che stanno i teenager e forse anche i loro genitori. È il Pepsi Refresh Program, una pubblicità virale che chiede idee utili «a migliorare l’America».

Un successo clamoroso. Gli annunci su Facebook funzionano perché propongono una comunicazione intima e calda, coinvolgono l’utente, lo convincono a condividere il messaggio pubblicitario con i suoi amici, gli consentono di fare regali digitali come brani musicali in mp3. In più Facebook sa nome, cognome, data di nascita, grado d’istruzione, professione, passioni, qualità del giro di amici, preferenze sessuali, perfino fede religiosa di ciascuno dei 14 milioni d’italiani e del quasi miliardo di cittadini del mondo con un suo account. Quanto valgono queste informazioni (e soprattutto: davvero, come sostiene il giovane Mark, sono tutte utilizzabili in quanto «la rete ha ampliato i limiti della privacy»)?

Si potrebbe quindi pensare che per Google, l’ex stella fissa della rete, sia cominciato il declino sotto i colpi di Jobs e Zuckerberg. Così non è. L’azienda di Larry Page, Sergey Brin ed Eric Schmidt lancia ogni giorno nuove idee e iniziative. Le più recenti sono altrettante dichiarazioni di guerra a Facebook e Apple: Buzz, un social network collegato alla posta Gmail, e un tablet “alla iPad” basato sul sistema operativo per cellulari Android. Grazie ai nuovi formati pubblicitari in trasparenza, Google ora riesce finalmente a spremere quattrini anche da YouTube, che aveva un’audience sterminata ma costi non coperti da ricavi. Soprattutto, difende con le unghie e con i denti il proprio vantaggio competitivo in termini di conoscenza dell’utenza, avendo costruito un sistema di oltre 130 servizi sinergici che raccolgono dati di ogni genere, li incrociano, li utilizzano per allestire target pubblicitari raffinatissimi.

In cambio di una ricerca sul web molto efficiente, di una mail di qualità, di una barra di servizi efficace, di mappe dettagliate e di molto altro, gli utenti permettono a Google di farsi beffe delle leggi locali sulla privacy. Non sarà facile scalfire tanta potenza. In attesa di iAd, delle pubblicità di Facebook e anche di quelle di Twitter, Google s’affretta ad accaparrarsi una fetta sempre più grossa della Grande Torta, che varrà almeno 25 miliardi di dollari nel 2010.

Ma la Grande Torta non è grande abbastanza. Lo sanno gli editori dei giornali di mezzo mondo, che in pochi anni si sono visti scippare dai siti una delle fonti di ricavi più significative, ossia i piccoli annunci chiamati in gergo “classificati”, e che negli ultimi 18 mesi hanno assistito sbigottiti a cali drammatici della pubblicità tradizionale. Lo scopriranno a proprie spese tra breve anche le tv generaliste, nella morsa della concorrenza di centinaia di canali specializzati e di un web sempre più in formato video on demand.

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