Scettici visionari ispirati sotto la Mole

Maurizio Ferraris su torinesità e piemontesità (via Repubblica)

Ora tutto è cambiato: “A cinquant’anni mi sono completamente riconciliato con la città e la sua nuova vivacità, e tornato qui a lavorare non sento la mancanza né di Milano né di altre città”.
Anche la ‘torinesità’, dunque, può migliorare?
“Intanto io parlerei più volentieri di ‘piemontesità’, perché ritengo che fin dal passato sia questo il retaggio di chi vive qui. Si è milanesi, oppure si è piemontesi. Poi, l’ossessione tipica di chi è nato in questa regione è quella di liberarsene, l’antesignano di questo atteggiamento è stato Vittorio Alfieri che a differenza di Manzoni, deciso a sciacquare i panni in Arno pur restando lombardo. Noi piemontesi siamo sempre stati e siamo ancora tanto scettici quanto visionari, un altro esempio – benché savoiardo ma molto vicino a noi – è Joseph De Maistre. Non ci facciamo incantare da nulla, perfino le scoperte e i progressi della scienza li accogliamo con giusta lucidità”.

E’ giusto, oggi, chiedere che chi si candida a un importante ruolo pubblico, nelle banche o altrove, sia portatore di ‘torinesità’?
“No, lo ritengo del tutto insensato. Ragionando così, un grande architetto come Juvarra non avrebbe mai potuto lavorare a Torino! A parte questo, in un’epoca in cui le trasformazioni non sono più locali e neppure nazionali, ma mondiali, non è l’origine geografica di una persona a contare ma le sue capacità di rappresentare un interesse collettivo”.
Linguaggio, carattere degli abitanti, usanze, cibi… Su quali fronti si è modificata di più la natura della città e della regione?
“Rientrato a Torino dopo 15 anni mi sono reso conto che erano cambiati perfino i suoni. Settentrionali e meridionali avevano perfettamente ibridato le loro parlate, aggiungendoci una spruzzata di lombardo televisivo e rendendosi perlopiù indistinguibili gli uni dagli altri. Quanto al cibo, le specialità ‘tipiché piemontesi vengono valorizzate nei ristoranti come politica di marketing, specie nei confronti di chi arriva da fuori, ma non è affatto detto che si sia noi a volerle mangiare”.
E’ soddisfatto delle politiche culturali della città?
“Se devo rispondere ‘sì’ o ‘no’, scelgo ‘molto’. Oggi ci sono calendari ricchissimi, e anche questo contribuisce a rendere i nostri studenti curiosi e viaggiatori. Proprio oggi ho discusso a Tarragona la tesi di dottorato di un ragazzo di Fossano, brillantissima”.
C’è una stagione politica che sta finendo e un’altra che comincia?
“Non credo che si debba puntare sulla discontinuità. Se è vero che Torino e il Piemonte sono un misto che nasce dai sentimenti altalenanti dei loro stessi abitanti, allora si deve partire dalla constatazione che sono state le buone amministrazioni a consentire ai luoghi di diventare quello che sono ora. Mentre le cattive amministrazioni fanno il contrario: guardare la realtà di Napoli per credere”.

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