Telecom e Pirelli patteggiano ed escono dal caso Tavaroli

Via Corriere

Centomila euro di profitto del reato, 400.000 di sanzione pecuniaria, 750.000 a titolo di risarcimento del danno a tre ministeri, più i circa 3.000 euro di offerta-standard ai dipendenti schedati al momento dell’assunzione (circa 4,8 milioni): su questa base, complessivamente intorno ai 7 milioni e mezzo di euro, sia Telecom sia Pirelli hanno ottenuto dalla Procura di Milano il consenso all’accordo che, depositato sabato mattina negli uffici deserti per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, farà uscire le due aziende dall’udienza preliminare sul dossieraggio illecito praticato dalla divisione Security negli anni in cui la guidava Giuliano Tavaroli, tra i primi a chiedere già mesi fa di patteggiare 4 anni e mezzo.

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Non perseguibile per complessità giuridico-tecnica

Il processo per le violazioni industriali della security Telecom dei tempi di Tronchetti Provera rischia di non potersi celebrare per la necessità di realizzare 5000 udienze per esaminare gli sterminati verbali delle intercettazioni. Ora per farla franca in Italia basta fare un reato troppo complesso o troppo diffuso. Paolo Colonnello su Lastampa

Non so come si farà a celebrare questo processo…». Dice così il gip dell`inchiesta Telecom, Giuseppe Gennari, mentre si rigira tra le mani lo scarno comunicato della Corte Costituzionale che lo obbligherà, prima di distruggerli, a esaminare insieme con difese, parti civili e accusa, le migliaia di dossier illegali trovati durante l`inchiesta sullo spionaggio Telecom.

Scuote la testa anche il giudice dell`udienza preliminare, Mariolina Panasiti, appena riemersa dal l`aula magna nella quale sono sfilate oltre trecento parti civili: «Per ora vado avanti ma è una strada in salita…». Dietro i giri di parole il messaggio è chiarissimo: il processo Telecom, così come lo abbiamo conosciuto in tre anni d`inchiesta, con i suoi misteri, le sue spie, i suoi giochi di potere e le sue guerre internazionali, non esisterà più.

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Non è un nuovo caso Tavaroli, anche se vogliono assimilarlo

Gioacchino Genchi cerca di spiegare al di fuori dal suo blog la sua posizione sulla presunta madre delle intercettazioni che Silvio B. vorrebbe usare per riscrivere la legislazione sulle intercettazioni.

Il vice-questore in aspettativa Genchi, 49 anni, va su tutte le furie quando si parla di lui come di “un personaggio misterioso”. Anche se cede al narcisismo quando lo si incontra nel sotterraneo di 500 metri quadrati, ipertecnologico, di piazza Principe di Camporeale, a Palermo (è un tormento riuscire a incontrarlo). A Genchi piace mostrarsi seduto al suo scrittoio, tra gli schermi di cinque grandi computer. Non è parco di parole. Il suo è un flusso verbale ininterrotto impastato di allusioni, suggerimenti, accenni, avvertimenti che risultano per lo più oscuri, indecifrabili. Si compiace del mistero che sollecita. Gli piace apparire un uomo che sa troppo cose indicibili, ma dicibilissime, se gli si sta troppo addosso.

Se stimolato, Genchi racconta, ricorda, precisa a gola piena. Spiega di come sia stato lui il primo, nella polizia, “nonostante la forte vocazione umanistica”, a darsi da fare con l’informatica, l’elettronica, la topografia applicata e i primi “teodoliti al laser”, che solo Dio sa che cosa sono. E’ un fatto che Vincenzo Parisi (capo della polizia) nel 1988 gli affida la Direzione della Zona Telecomunicazioni del ministero dell’Interno per la Sicilia occidentale. E’ il suo trampolino di lancio, l’inizio di una parabola che lo porterà ad essere, prima con la divisa addosso poi da libero professionista, il ricercatissimo consulente delle procure, capace di “mappare” l’intera rete di relazioni telefoniche di un indagato. Controlla, per dire, quasi due miliardi di tracce telefoniche nell’indagine di via D’Amelio.

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