Rileggere la storia della giornalista Paola Caruso

Paola Caruso, una giornalista, una donna, sabato scorso ha iniziato uno sciopero della fame e della sete, che prudentemente si è trasformato in un solo sciopero della fame.

Sciopero della fame e della sete, le prime 24 ore. ?Mi sento un po’ debole, ma sto bene.

La storia è questa: da 7 anni lavoro per il Corriere e dal 2007 Sciopero della fame e della sete, dopo le prime 24 ore. La novità è che ho bevuto. Mi hanno convinto gli amici, ma vado avanti con lo sciopero della fame.
Per chi mi ha chiesto i motivi della protesta ecco qualche dettaglio. Spero di essere chiara: al momento sono un po’ cotta e parecchio stanca. ?sono una co.co.co. annuale con una busta paga e Cud. Aspetto da tempo un contratto migliore, tipo un art. 2. Per raggiungerlo l’iter è la collaborazione. Tutti sono entrati così. E se ti dicono che sei brava, prima o poi arriva il tuo turno. Io stavo in attesa.
La scorsa settimana si è liberato un posto, un giornalista ha dato le dimissioni, lasciando una poltrona (a tempo determinato) libera. Ho pensato: “Ecco la mia occasione”. Neanche per sogno. Il posto è andato a un pivello della scuola di giornalismo. Uno che forse non è neanche giornalista, ma passa i miei pezzi.
Ho chiesto spiegazioni: “Perché non avete preso me o uno degli altri precari?”. Nessuna risposta. L’unica frase udita dalle mie orecchie: “Non sarai mai assunta”.

Il suo gesto è andato avanti per cinque giorni. Ieri, mercoledì, Paola ha sospeso il suo sciopero.

Nel pomeriggio di ieri ha anche incontrato il direttore e i vertici del Corriere e ha ripreso a lavorare con il suo contratto che scade a fine aprile. La scelta di Paola è stata subito intercettata dalla Rete italiana che ha iniziato con la velocità dei blog e dei social network a diffondere e commentare la notizia. Domenica e lunedì scorsi era indubbiamente la notizia più discussa dalla rete di lingua italiana. Se pensiamo che siamo in tempi di quasi crisi di governo, l’effetto del gesto di Paola è stato deflagrante.

Dopo i primi commenti emotivi ed empatici, spesso rabbiosi, altrettanto spesso razionali, le discussioni in rete si sono divise. La maggioranza degli abitanti della rete italiana hanno approvato, difeso e spalleggiato lo sciopero di Paola. Si è creato una specie di pronto soccorso morale e pratico che ha aiutato “a domicilio” Paola che contemporanemente doveva badare alla sua salute e rispondere a decine di telefonate e mail.

Un’altra parte della rete ha criticato la scelta di Paola. Qualcuno con ragioni razionali, documentate e volendo condivisibili. Altri in maniera meno chiara e dettagliata. Alcuni l’anno accusata di furbizia, altri di protagonismo, altri ancora di arrivismo. I media tradizionali italiani non hanno praticamente raccontato in nessuna maniera la vicenda di Paola. Le agenzie hanno fatto dei lanci sulla vicenda, nel caso le redazioni dei giornali e delle tv avessero tutte avuto internet sconnessa in questi giorni. I media nativi digitali hanno invece spazio alla notizia seguendone le evoluzioni principali. Ordine dei Giornalisti e sindacato dei giornalisti fin da subito hanno dato visibilità alla storia di Paola delineandone correttamente gli ambiti e le motivazioni.

Paola Caruso è così lontana dalla foggia estetica di certi giornalisti/e rampanti: magra, carina, di modi educati e gentili. E’ una giornalista preparata, competente ed etica. Così diversa da certe virago aggressive, o da certi uomini che si aggirano per certe redazioni italiane. Paola ha però dimostrato una forza e un coraggio non comune. Ha deciso di tentare di cambiare le cose. Di ribellarsi a un sistema che troppi e troppe volte hanno tollerato.
Il suo gesto ha portato nuovamente a galla, in questo periodo complicato, il problema dei precari. Un mare grande di persone che cercano sicurezza e per lo meno riconoscimento delle regole. Altri avevano già fatto gesti analoghi per cercare tutele al loro posto di precari. Nessuno aveva fatto azioni eclatanti nel settore giornalistico.
Paola ha messo in gioco la sua salute in un gesto disperato, forse impulsivo, forse ragionato. Di certo non si è accorta che il suo gesto potrebbe essere uno spartiacque. Ci sarà un prima e un dopo lo sciopero della fame di Paola Caruso. Che piaccia o meno ai giornalisti italiani.

Per capire il coraggio di Paola Caruso e l’importanza del suo atto occorre prendersi un po’ di tempo e cercare di capire come come funziona il mondo del giornalismo italiano. I casi della vita hanno voluto che recentemente con l’amico e maestro Pino Rea abbiamo realizzato e pubblicato un ebook sull’analisi dei numeri della professione giornalistica in Italia. La sua lettura può servirci per iniziare a capire il contesto in cui ha operato Paola Caruso. Una delle cose che balzano evidenti dalla lettura dell’ebook è che in Italia ci siamo molti, troppi giornalisti. Il mestiere ha il suo fascino, forse la sua eccessiva personalizzazione o mediatizzazione lo rende troppo ambito, trascurando il fatto che per un Santoro o un Mentana, che hanno grande successo ci sono moltissimi che faticano e fanno onestamente il loro civile e serio. Fanno il loro lavoro senza avere soldi e visibilità che hanno altri, pochi altri.

La professione giornalistica è normata da  leggi che conviene spesso rileggere perché sono mediamentebuone leggi, nate dopo il regime fascista per tutelare la libertà di espressione di questo paese e facenti riferimento a  valori pienamente condivisibili. Molti osservatori non apprezzano la presenza dell’Ordine dei Giornalisti. L’Ordine può essere discutibile, può essere migliorabile. Se L’Ordine dappertutto funzionasse come la legge descrive, verificando il verificabile e sanzionando il sanzionabile, sarebbe un ottima garanzia  per i cittadini e per i suoi iscritti. Invece per troppi anni l’Ordine, e il sindacato unico dei giornalisti, si chiama FNSI, hanno agito prevalentemente con ragioni di casta. Le cose stanno lentamente cambiando e si sta ritornando verso origini etiche e professionali più correttamente concepite. Si sente aria nuova. Certo c’è molta strada da fare. Forse troppa.
Oggi come oggi, ai tempi di internet e dei medi digitali, possono fare tutti informazione. Il Citizen Journalism è un dato di fatto, non utopia dell’informazione. Tutto è cambiato. Secondo la legge italiana vigente ad oggi quelli che fanno dell’informazione un mestiere, per farla grezza quelli che ci guadagnano denaro, sono definiti giornalisti. Sempre secondo la legge italiana i giornalisti si dividono in due macro tribù professionali: i pubblicisti e i professionisti. I professionisti sono quelli che fanno a tempo pieno, se capita, il mestiere. I pubblicisti sono invece giornalisti che però hanno una professione principale differente.

Le strutture dell’Ordine dei Giornalisti e della FNSI sono piuttosto complesse, ma si basano su un principio di federalismo organizzativo per cui sindacati e ordini locali agiscono con quasi totale indipendenza rispetto alle strutture nazionali. Questo non è banale, dato che poi nel 99% dei casi i giornalisti e i cittadini si rivolgono per le loro problematiche a livello locale. Se localmente si trovano persone corrette, illuminate, competetenti e appassionate va tutto bene. Ma siamo abituati a conoscere come nel nostro paese ci sono buoni e meno buoni. E se ci si trova di fronte nella propria regione a potentati o interessi privati o aziendali, occorre rivolgersi a livello nazionale, e tutto diventa molto più lungo e complicato.

Il fulcro organizzativo del lavoro dei giornalisti sono le redazioni. Le redazioni sono una macchina straordinaria che lavora moltissime ore per realizzare quotidiani periodici, news radiofoniche e televisive, siti di informazione. Ma sono anche un territorio non sempre troppo raccomandabile. Come in tutti i contesti ci sono ricchi e poveri. Ci sono diversi gironi danteschi di collaboratori e questuanti pagati molto poco e inquadrati in maniere poco chiare, diciamo “spesso fantasiose”.

La forbice fra l’abbondanza dei giornalisti e la crisi del settore ha poi ridotto il potere contrattuale  dei collaboratori spesso ben sotto la soglia dela decenza, secondo le leggi di una libera economia non temperata. Purtroppo però leggi e disposti ordinistici e sindacali sono troppe volte dimenticati o calpestati attraverso consuetudini spesso simili al caporalato, se non decisamente illegali. Questo sfruttamento degli anelli deboli del sistema si industrializza in accordi taciti o in disattenzioni di editori poco onesti e di colleghi ben retribuiti e garantiti che sfruttano senza particolari problemi le fasce deboli o indebolite. E’ ovviamente difficile generalizzare perché fortunamente esistono anche isole felici di legalità e eticità, mischiate a realtà letteralmente indescrivibili. E non sempre le grandi redazioni sono più etiche e corrette delle piccole. Gli enti preposti alle verifiche del caso, ad esempio l’ente previdenziale dei giornalisti, si chiama INPGI, cercano di fare il possibile, ma come in tutti gli altri settori del lavoro, non è sempre facile catturare le aree grigie o molto grigie del sistema.

Ma perché questi giornalisti vessati accettano di andare avanti così ? Perché la legge della jungla delle redazioni prevede che lla fine qualcuno ce la possa fare e riesca ad uscire dall’area grigia per entrare nel dorato mondo di quelli con un posto sicuro. Ovviamente non sempre questo percorso segue regole di meritocrazia. Spesso figli di papà, affillitati politici e protetti da gruppi industriali passano attraverso le maglie del sistema per saltare i passaggi e le isterie del percorso standard descritto. Questo feroce percorso offre ai poveri giornalisti non regolarizzati, una massa oramai numericamente imponente, scarsi spazi per la libertà di espressione attraverso la propria professione. Facciamo un esempio. Ponete che un giornalista nella massa che già ha scalato qualche micro gerarchia scriva di qualcosa che non piace a un editore o a un inserzionista pubblicitario o a un ras a scelta nel suo intorno.

Bene dopo anni di lavoro improvvisamente si trova a essere rimandato dal via e a vedersi sorpassato dai giovani di anagrafe e di esperienza professionale. Una delle regole non scritte della legge della jungla è: non protestare e non chiedere più di quello che hai, se no rischi di essere espulso dalla macchina dell’informazione in cui hai faticosamente scalato dei gradini. Accettare questa legge permette di essere “armonici al sistema”, di non essere considerati dei rompiscatole. Ma da quel momento in poi si è completa balia delle scelte di reponsabili giornalistci e spesso di editori che possono fare il bello e cattivo tempo.
La legge prevede anche la presenza di un Cdr nelle redazioni. Il Cdr è  una rappresentanza sindacale con dei poteri ben superiori ad altre professioni. Il Cdr dovrebbe vigilare anche sulla regolare applicazione dei contratti e delle mansioni. Esistono ottimi Cdr reattivi e presenti, ma anche altri Cdr meno reattivi e presenti.

E poi c’è il Direttore.
La figura del Direttore, legalmente definito direttore responsabile, è il fulcro di tutta l’attività giornalistica, reponsabile dei contenuti del giornale, capo organizzativo del giornale, responsabile delle assunzioni, e persona di raccordo fra editore e giornale. Il direttore di un giornale è un professipnista che non ha consimili nel mondo del lavoro. Il direttore si occupa della linea politica ed editoriale di un giornale, ma anche delle assunzioni in redazione, dell’organizzazione del lavoro, della responsabilità legale dei contenutidella testata. Dimenticavamo una cosa fondamentale: chi nomina il direttore ? Ovviamente è l’editore che lo “ingaggia”. Poi il direttore presenta il suo piano editoriale che viene discusso dalla redazione.

Nei giornali ci sono, almeno ci dovrebbero essere, carriere separate. Da una parte i giornalisti, i creatori, i selezionatori, i costruttori dell’informazione. Dall’altra i poligrafici che devono occuparsi di costruire fisicamente, distribuire, vendere, pubblicizzare il prodotto editoriale. Manager e supera manager, ma anche sistemisti, operai, esperti di marketing e amministrativi. Sopra a tutti lui: l’editore ovvero l’imprenditore. In effetti in Italia di editori puri ce ne sono pochi pochi, ma questa è un’altra storia.

Abbiamo cercato di raccontare il mondo del giornalismo italiano per far capire il contesto dello sciopero della fame di Paola Caruso. Ora ritorniamoa alla sua storia. Paola Caruso è una giornalista. Ha iniziato come molti con delle collaborazioni spot con il Corriere della Sera, per poi avere dei contratti più strutturati, più rassicuranti. E’ una buona giornalista. Si occupa di molte cose, è flessibile. Conosce le nuove tecnologie. Come è giusto che sia ha avuto l’aspirazione di avere un pusto più sicuro per guardare con maggiore serenità al futuro.

Il Corriere della Sera, come tutti sappiamo, è uno dei due maggiori quotidiani italiani, parte di un grande gruppo editoriale quotato in borsa con molte attività gestite. E’ un giornale la cui storia parla da sola. Ma il Corriere, come buona parte dei giornali italiani, è in stato di crisi. Lo stato di crisi viene richiesto e contrattato dagli editori quando ci siano oggettive difficoltà economiche. Lo stato di crisi permette varie facilitazioni. Di queste una parte riguarda il prepensionamento e le riorganizzazioni aziendali, per dirla chiara: la riduzione dei costi. Ovviamente se si taglia personale, è impossibile assumerne, se non in condizioni molto particolari.

Paola ha lavorato per sette anni per il Corriere. Sperava che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe potuto guardare al suo futuro con maggiore sicurezza. Così quando sperava in un contratto più sicuro che ha visto arrivare a un allievo di una scuola di giornalismo, su cui non sappiamo nulla, ha deciso, di iniziare lo sciopero della fame.
Qualche osservatore ha corretamente notato che la scelta dell’azienda sarebbe stata legalmente ineccepibile. Si può comunque notare che la meritocrazia è tutta un’altra cosa. Altri postulano che il contratto del “concorrente”è a tempo indeterminato. Altri eccepiscono su altri possibili vizi di forma o comportamentali. Se qualcuno ha altro da obiettare, i commenti sono a disposizione, purchè circostanziati e riscontrabili.

Paola scegliendo la forma della protesta sapeva di avere poche tutele e molti rischi. Primo fra tutti di trovarsi molte, troppe, porte chiuse. Ma è partita. Come il piccolo “rivoltoso sconosciuto” di Piazza Tiananmen. Piccolina davanti ai tank schierati Non sappiamo se abbia uno spirito da eroe o un una disperazione all’ultimo stadio. Ci siamo parlati, ci siamo scritti. Ma non era il caso di stancarla troppo. Voleva davvero cambiare le cose, fare in modo che per lo meno il suo atto servisse a cambiare le cose. La solidarietà della rete l’ha accolta. Il suo coraggio ha pagato. Le cose si sono mosse, qualche cosa è cambiato. Molti si sono rivolti a lei manifestando solidarietà o raccontando le loro storie.

A bocce ferme, a sciopero concluso, possiamo fare qualche riflessione. Ovviamente ne seguiranno altre.

Paola è riuscita a far parlare del suo caso e a riportare l’attenzione sul precariato e per la prima volta a parlare in campo aperto dei problemi del lavoro di giornalista, della sua professione. E’ anche riuscita a continuare con il suo contratto, che con l’aria che tira non è niente male. E’ riuscita a non essere espulsa dal sistema e a far valere le sue richieste

Ancora una volta la Rete ha dimostrato di essere dal basso un vero media, con tutti i problemi che esistono anche nella famiglie più rispettate. Ora i precari normali e i precari giornalisti non possono perdere l’occasione di far cadere l’attenzione sui loro problemi e sulle loro storie, consci che con tanto coraggio si può abbattere il muro del silenzio e dell’omertà.

Gli enti del giornalismo, Ordine e FNSI, hanno fatto il loro lavoro. Hanno difeso la posizione di Paola e il suo coraggio sottolinenando i problemi della professione.

Il Corriere si è difeso con correttezza e ne esce bene. Certo era spalle al muro. Ma avrebbe potuto fregarsene, dall’alto della sua storia e della sua posizione ingombrante. E invece dopo intermediazioni e incontri ha accettato di riaprire il colloquio con Paola Caruso.

Un rumore assordante arriva dal “non pervenuto”, dal completo black out dell’informazione tradizionale che non ha neppure citato la storia di Paola Caruso. Se qualche esperto di cose giornalistiche ci spiegasse che la sua storia non era “notiziabile” saremmo  a disposizione per capire se ci sbagliamo. Ma temiamo le cose siano ben diverse. Si è persa una buona occasione per discutere di “certi problemi” dell’informazione italiana con i colleghi e con i propri lettori. Capirete che un sistema del genere non può reggere ancora a lungo soprattutto ai tempi di internet e in cui trasparenza nel dibattito fra lettori e giornalisti e nella scelta delle notizie è all’ordine del giorno

Da domani gli editori saranno più cauti nel fare porposte indecenti. Forse da domani faranno meno contratti indecenti e qualche sfruttato non avrà nel breve di trovare mezzi di sostentamento. Ma a che vale mettersi nelle mani dello sfruttamento sistematico, quando forse conviene tentare altre vie per trovare visibilità, lavoro e sicurezze.

Ora Paola ha tempo per rinfocillarsi fino addirittura ad ingrassare, per riposarsi, per riprendere il suo lavoro.

Ora ha anche la missione con i tanti che le sono stati vicina di continuare a tenere spalancata la porta che con molta forza e tenerezza ha aperto.

12 commenti su “Rileggere la storia della giornalista Paola Caruso”

  1. Bellissima analisi. Ho letto di Paola in questi giorni e ammiro il suo coraggio. Spero che riesca ad ottenere l'agognato contratto che merita, anche se ho paura che rimarrà "bollata" a vita nel suo giornale per essersi ribellata al sistema. Magari io riuscissi ad avere il suo coraggio, o meglio la sua rabbia… E invece non riesco nemmeno ad affrontare con tenacia il mio direttore, mi faccio intimorire e rimango ferma ad aspettare. Da qualche anno collaboro con lo stesso giornale, da 4 sono responsabile di una redazione periferica. Per tutti, ma non per il contratto (quello a progetto, che ogni anno rinnovano automaticamente, un anno e mezzo fa dandomi l'aumento: un contentino di 50 euro in più) né per il portafogli (appena qualche centinaia di euro, a cui vengono tolte pure le trattenute). Faccio di tutto, dal desk ogni giorno a seguire conferenze stampa, nera giudiziaria e ogni altra cosa, ora ho anche il telefono aziendale e perfino dei collaboratori sotto di me… Lavoro anche di domenica, non tutte, alternandomi con dei professionisti… Ma ovviamente io non sono pagata per farlo al contrario loro, prendo il mio fisso mensile, non ho giorni di corta, mi prendo 2-3 settimane di ferie all'anno e ogni volta mi sento pure in colpa perché chi ci rimette è solo chi mi sostituisce. Potrei fare vertenza in qualunque momento, consapevole di vincerla, ma poi? Mi conviene veramente? E così rimango qui, al mio solito posto… sognando che prima o poi mi venga riconosciuto quello che mi spetta.

  2. Una analisi pulita, seria, onesta, precisa al millimetro, scevra da animosità o partigianerie. Grazie a nome di tutti quelli che sono dentro a questa giungla e non riescono a venirne fuori.
    Marina

  3. bellissimo post bravo. Mi domando però perché l'Ordine tenga aperte ben 14 scuole, con il poco lavoro che c'è…

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