Un lavoro da fame (la parola fame va letta all’italiana non all’inglese)

Memoria per la Commissione Lavoro del Senato della Repubblica in merito all’audizione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana disposta per il 29 marzo 2011, avente ad oggetto l’indagine conoscitiva sul trattamento normativo ed economico nel settore dell’editoria.

La crisi dell’editoria
La crisi dell’editoria in questi anni è stata drammatica. Le continue irrefrenabili innovazioni della tecnologia hanno creato un mercato parallelo dell’informazione, quello di internet e dei blog (decisamente differenti, ma nello stesso tempo spesso simili all’informazione professionale), che non ha barriere nazionali, che non ha vincoli temporali, che non ha costi di produzione e di diffusione. Una concorrenza quasi “sleale” con la carta stampata sempre gravata da costi crescenti di produzione e di diffusione. Anche la concorrenza dell’emittenza radio televisiva, sia quella nazionale con l’invasione del satellitare, sia quella locale, ha finito per creare problemi all’editoria stampata. A sua volta, il passaggio dall’analogico al digitale ha messo in gravi difficoltà tutta l’area dell’emittenza radio televisiva di ambito locale, che ha sempre strutturalmente sofferto per le ridotte dimensioni dei singoli operatori, ed ha moltiplicato quasi all’infinito l’offerta informativa. Questo scenario sconfortante per la carta stampata, che ha interessato tutto il mondo occidentale, è stato ulteriormente aggravato da una crisi economica mondiale di vaste proporzioni che ha investito tutti i settori produttivi e che ha avuto come prima e immediata conseguenza un drastico ridimensionamento del mercato pubblicitario, proprio quello dal quale dipendono le sorti di tutti i mezzi di comunicazione di massa.

Lo scenario internazionale
In molti in questi anni, di fronte al cumularsi di queste difficoltà, si sono esercitati a predire la fine della carta stampata. Certo è che il quadro dell’editoria nel mondo occidentale non ci ha confortati. Se volgiamo uno sguardo agli Stati Uniti, che rappresentano la realtà industriale più avanzata, possiamo osservare i deludenti dati resi noti dalla Newspaper Association of America che ha registrato un calo degli introiti pubblicitari, compresi quelli delle edizioni online, degli editori di quotidiani del 17% nel 2008 e del 27,2% nel 2009. Nel triennio 2006-2009 il fatturato pubblicitario dei quotidiani americani è sceso da oltre 49 miliardi di dollari a poco più di 27 e anche le previsioni dell’anno in corso non appaiono di segno diverso. Secondo gli analisti, che pure intravedono una lenta fuoriuscita dalla crisi a fine 2012, il fatturato pubblicitario dei quotidiani americani a mala pena potrebbe arrivare ai 30 miliardi di dollari, sempre ben al di sotto dei risultati precrisi. Alla riduzione drastica della pubblicità si è aggiunto il calo della diffusione, anch’esso frutto della crisi generale. Sono calate le vendite di quasi tutti i giornali degli Stati Uniti come quelle dei giornali inglesi, che hanno perso tutti consistenti quote di mercato: hanno perso il 10% il Daily Telegraphe e il The Indipendent, il 16% il The Times e il The Guardian, il 6,4% il Financial Times. Tra il 2007 e il 2009 la vendita dei quotidiani negli Stati Uniti è scesa del 30% e in Gran Bretagna del 21%. Né migliore è stata in questi anni la situazione negli altri Paesi europei e, ovviamente, altrettanto negativi sono stati i risultati italiani con un ridimensionamento del fatturato editoriale nei quotidiani che è partito proprio nel 2007 con un -1,4%, passando al -4,5% nel 2008 e a un -9% nel 2009. Un andamento accompagnato da una evoluzione dei costi industriali anelastica.

La situazione italiana
Anche in Italia la riduzione della pubblicità e delle vendite è stata constante. Nel solo 2009 i quotidiani hanno perso il 16,4% delle entrate pubblicitarie e i periodici il 29,3%, che seguiva una perdita del 13,5% del 2008. Sul fronte delle vendite i quotidiani hanno perso nella prima parte di quest’anno il 6%, una percentuale simile a quella del 2009. Identico il risultato negativo dei periodici che continuano a perdere copie e pubblicità dal 2007, anno in cui è iniziata la perdita di copie con un -2%, passata nel 2008 a un -3,9% e nel 2009 a un pericoloso -9%. Le strategie editoriali spesso non si sono rivelate lungimiranti e una loro visione, limitata talvolta solo agli aspetti ragionieristici, concorre a rendere precaria la prospettiva.

La lunga e pesante crisi, il cui tunnel ci troviamo ancora a percorrere, se da un lato ci pone l’interrogativo di come uscirne, dall’altro ha comportato una devastante conseguenza sul piano sociale. Le aziende editoriali di fronte a una crisi senza un orizzonte immediato di uscita hanno impostato la loro strategia sul piano del contenimento dei costi e, quindi, inesorabilmente sulla riduzione degli organici redazionali. La Federazione della Stampa ha dovuto, perciò, affrontare, parallelamente alla rinnovazione contrattuale anche il problema delle crisi aziendali, degli ammortizzatori sociali, per evitare impatti drastici e dolorosi e della salvaguardia delle strutture previdenziali e assistenziali di categoria messe a dura prova dalla crescita improvvisa ed esponenziale di giornalisti in disoccupazione, in cassa integrazione, in solidarietà o in prepensionamento.

Nel corso degli ultimi anni sono stati 47 i quotidiani nazionali, regionali, locali, organi di partito o editati da cooperative che hanno presentato piani di riorganizzazione finalizzati al superamento di stati di crisi, 44 le testate periodiche e 6 agenzie di stampa.

Gli effetti della crisi hanno determinato l’uscita dalle redazioni per pensionamenti anticipati, esodi incentivati e licenziamenti per cessazione di attività di circa mille giornalisti. Sono 235 i giornalisti che hanno perso il posto di lavoro per la chiusura di testate o redazioni. La sola chiusura del quotidiano EPolis ha fatto perdere il posto di lavoro a 130 colleghi, ora in cassa integrazione, gravando sul costo sociale supportato dall’Istituto previdenziale di categoria (Inpgi). Un peso gravoso, che rischia di appesantirsi ulteriormente a causa di altre possibili dirompenti chiusure fallimentari.

Le nuove forme di lavoro giornalistico
In questi ultimi anni abbiamo assistito ad un cambiamento sempre più precipitoso dei modi di fare giornalismo e di essere giornalisti, che può essere paragonato ad una vera e propria rivoluzione epocale. Sono cambiati non solo i numeri complessivi di una categoria che è balzata dai quasi 30.000 iscritti all’Ordine dei giornalisti complessivi (professionisti e pubblicisti) del 1975 ai quasi 110.000 del 2009, ma sono cambiate strutturalmente le condizioni del lavoro. Ciò nonostante la professione è ancora oggi regolata da una legge che risale al 1963 e che, non avendo subìto alcuna modifica per la colpevole incapacità del legislatore, dimostra tutti i segni del tempo.

Basti pensare che per la legge del ’63 la pratica giornalistica può svolgersi soltanto presso un quotidiano, o un’agenzia quotidiana a diffusione nazionale o un periodico a diffusione nazionale o nel servizio pubblico radiotelevisivo. Se questa norma di legge non fosse stata interpretata in termini estensivi, tali da farvi rientrare tutti quei nuovi media che non erano inizialmente compresi, oggi avremmo uno scenario pauroso, nel quale la maggioranza di coloro che fanno informazione sarebbero esclusi dall’esercizio della professione giornalistica. In questa linea interpretativa, non ci si è limitati a considerare giornalisti soltanto coloro che avevano un rapporto di lavoro subordinato, ma si è esteso l’accesso all’albo anche a tutti coloro che svolgono attività giornalistica esclusiva di lavoro autonomo: il mondo tumultuoso e crescente dei freelance.

Sicuramente 110 mila iscritti all’Ordine non significano 110 mila giornalisti al lavoro, sia pure variamente impiegati.

Se dal 1975 al 2009 il numero dei giornalisti professionisti è poco più che triplicato, mentre quello dei giornalisti pubblicisti è quasi quintuplicato, vuol dire con tutta evidenza che si sono sostanzialmente modificati gli equilibri all’interno della categoria a favore di prestazioni di lavoro più flessibili ma anche più friabili. Il che è dimostrato, inoltre, dall’alterazione dell’equilibrio tra lavoratori subordinati e lavoratori autonomi. Il lavoro subordinato copriva nel mondo dell’informazione quasi la totalità degli addetti, tanto è vero che la legge istitutiva dell’ordinamento professionale dei giornalisti aveva come anomalia e come obiettivo quello di regolare una prestazione professionale svolta integralmente in regime di lavoro subordinato. Oggi non è più cosi. Il numero dei giornalisti con rapporto di lavoro autonomo è cresciuto e continua a crescere, si tratta non solo di pubblicisti ma anche e sempre più di professionisti con le inevitabili conseguenze che tutto ciò comporta sul quadro complessivo della professione: maggiore flessibilità, ridotte garanzie sociali, minori livelli contributivi. Grazie ancora alla strumentazione tecnologica, il lavoro autonomo non è più marginale o aggiuntivo ma è diventato sempre più concorrenziale al lavoro subordinato. Freelance non è solo il commentatore, l’analista o l’opinionista, il collaboratore esperto e affidabile che svolge un’attività integrativa a un’altra principale, ma è anche colui che raccoglie e fornisce informazione, occupando il campo e le mansioni che erano proprie delle redazioni.

Alcuni dati sulla popolazione giornalistica possono chiarire meglio l’andamento del mercato del lavoro: i rapporti di lavoro subordinati che nel 2000 erano 13.731 sono passati nel 2009 a 18.567, mentre i rapporti di lavoro autonomo che nel 2000 erano 9.374 sono saliti a 30.170.

Come si vede con evidenza il rapporto tra autonomi e subordinati si è invertito e mentre quello dei giornalisti subordinati è ormai statico con una tendenza alla diminuzione, quello dei lavoratori autonomi cresce con incrementi annui consistenti. Ma è anche significativo il dato sulla distribuzione della popolazione giornalistica, che non è più concentrata sui tradizionali strumenti di comunicazione di massa (quotidiani, periodici e agenzie di stampa). Su una popolazione complessiva di 18.567 giornalisti con rapporto di lavoro subordinato gli addetti al settore tradizionale sono soltanto 10.968. Il restante 41% della popolazione giornalistica è occupato nell’emittenza radiotelevisiva nazionale e locale, pubblica e privata, negli uffici stampa privati o della pubblica amministrazione o in altri segmenti produttivi di informazione.

Sempre più i giornalisti lavoratori subordinati sono coloro che lavorano al desk nelle redazioni obbligati a rivedere testi provenienti dall’esterno e a gestire l’enorme flusso informativo che attraverso le agenzie e la rete invade quotidianamente le redazioni, mentre i freelance finiscono per essere i giornalisti che hanno un rapporto immediato e diretto con la notizia, che seguono i fatti e li raccontano: un pericoloso fenomeno di divaricazione della professione.

Una recente ricerca di Lsdi, (Libertà di Stampa Diritto all’Informazione), ha documentato come nel 2009 poco più di 4.000 iscritti alla gestione separata dell’Inpgi hanno dichiarato un reddito pari a zero e come più del 55% degli iscritti abbia redditi dichiarati al di sotto dei € 5.000 all’anno. Si tratta di un dato terribile! Perché dimostra che una parte consistente della categoria è in una situazione di sofferenza economica. Se prima il freelance era soprattutto un pubblicista che svolgeva altra attività e che incrementava il suo reddito con collaborazioni e prestazioni giornalistiche, oggi è principalmente un professionista che non ha altri redditi e vive di solo giornalismo: in buona parte al di sotto dei limiti di sussistenza.

E’ un problema enorme. Da anni chiediamo alle nostre controparti editoriali di poter regolamentare contrattualmente anche il lavoro autonomo. Abbiamo trovato sempre porte sbarrate e nessun indirizzo normativo di sostegno ed è stata necessaria la mobilitazione di tutta la categoria per ottenere i primi risultati.

Oggi esistono strumenti contrattuali, che non sono tuttavia sufficienti. Esiste un accordo collettivo Fieg-Fnsi che stabilisce garanzie, sia pure minime, per i lavoratori autonomi. Esiste un accordo collettivo Aeranti Corallo-Fnsi, che assicura trattamenti normativi migliori per i freelance che lavorano nell’emittenza radiotelevisiva in ambito locale. Esiste un accordo collettivo Uspi-Fnsi che regolamenta in modo organico le prestazioni dei lavoratori autonomi nelle testate periodiche e che ha introdotto per la prima volta un tariffario dei compensi minimi sia per le prestazioni occasionali sia per le collaborazioni coordinate e continuative. Si tratta di primi approcci contrattuali, certo insufficienti, ancorché non disprezzabili.

Sul piano previdenziale si deve ricordare che esiste una competenza esclusiva della gestione separata dell’Inpgi, nella quale confluiscono i contributi di tutti i giornalisti che prestano lavoro autonomo. Di recente questa gestione è stata modificata in modo da consentire la separazione tra i prestatori di lavoro in regime di parasubordinazione (co.co.co.) e prestatori di lavoro freelance. Questa distinzione, contrattata a lungo con la controparte editoriale, ha consentito di elevare sensibilmente la contribuzione per i collaboratori coordinati e continuativi, accollando agli editori i due terzi del costo e impegnandoli ad aprire le posizioni previdenziali.

La Federazione segue con attenzione l’evoluzione normativa sui lavoratori autonomi. In questo quadro va segnalato il confronto in corso con il Ministero del Lavoro e con l’Inail per valutare l’estensibilità dell’obbligo dell’assicurazione infortuni anche ai lavoratori parasubordinati, e quindi ai giornalisti con contratto di collaborazione coordinata e continuativa.

Ma, occorre una legge sui compensi minimi, che scoraggi forme di rapporto di lavoro anomalo, elusioni dell’obbligo di contrattazione per lavoro dipendente e compensi da fame, indecorosi per prestazioni professionali. La contrattazione tra le parti risulta impervia. Sono necessari supporti legislativi e chiare norme per fare superare lavoro nero e precariato. Riteniamo di dover richiamare l’attenzione del legislatore sull’opportunità di prendere atto di questa nuova realtà del mondo del lavoro che non riguarda soltanto i giornalisti, sulla necessità di riportare in testi legislativi nazionali e comunitari le osservazioni dell’ ILO (Organizzazione Internazionale Onu per il Lavoro) sulla opportunità che la questione del precariato sia affrontata anche nell’ambito della tutela dei diritti umani e di una dichiarazione universale di diritti e dignità