Il presidente della Siae Giorgio Assumma su Lastampa.it
Chiamare pirati i ragazzini che scaricano illegalmente file musicali e cinematografici da magazzini digitali sempre più vasti, non risulta certo facile. E nemmeno giusto. Il peer to peer ha creato una ricchezza d’offerta ineguagliabile, i ragazzini (ma non solo loro) scaricano per uso personale (senza lucro come fanno invece i veri pirati) assemblano e spesso trovano ciò che in catalogo non c’è più. E allora perché criminalizzarli? Le leggi attuali in tutto il mondo sono severe, prevedono multe a tre zeri e anche sanzioni penali, ma forse proprio per questo sembrano difficilmente applicabili ai singoli. Negli Stati Uniti s’è scelta la via di alcune sentenze esemplari per dare un segnale. Ma è questa la strada? Che fare? Rassegnarsi alla sottrazione continua (come se in una libreria si tollerasse il furto di libri perché si leggono o, in un negozio, di maglioni perché s’indossano)? Limitarsi a dire che la rete ha stravolto tutto e che quindi i diritti d’autore (solo quelli, mentre tutti gli altri diritti di proprietà, dai costi degli abbonamenti, ai computer, alle memorie ecc. vanno invece rispettati) così come sono attualmente, non servono più a niente, senza per altro offrire alternative concrete e praticabili? Cercare qualche soluzione, evitando di disturbare troppo i manovratori delle industria tecnologica che fanno utili a palate anche e soprattutto grazie agli scaricamenti illegali? Evitare di urtare politici sensibili al consenso di massa dei navigatori-consumatori?
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